Orsoni, c’era un patteggiamento di troppo: quattro mesi e un Daspo

Giorgio Orsoni
Giorgio Orsoni (Lapresse)

VENEZIA – “Quattro mesi sono una goccia di sangue che ho dovuto versare. Alla fine è poco più di un incidente stradale”. Giorgio Orsoni, prima di accogliere (si fa per dire) il “gentile” (si fa per dire al cubo) invito del Pd a farsi da parte, commentava così la sua vicenda giudiziaria. Vicenda per lui conclusa con un patteggiamento, quindi tecnicamente un’ammissione di colpa.Patteggiamento che pertò non impediva ad Orsoni di non veder proprio alcun motivo, proprio nessuno, per non restare sindaco. Nella vicenda in questione però c’era, ed era evidente a tutti tranne forse che ad Orsoni stesso, un patteggiamento di troppo.

Non era di troppo nella mente, nell’anima e, staremmo per dire, nel costume e nella cultura di Orsoni. Con l’abbozzata metafora dell’incidente stradale Orsoni regalava alla stampa e all’opinione pubblica ciò che spesso un uomo pubblico davvero pensa quando gli arriva addosso la grana di una sverniciatura alla carrozzeria d parte della magistratura. Orsoni appena accettata la condanna a quattro mesi per finanziamento illecito si sentiva in diritto e in dovere di restare sindaco. Proprio come un automobilista si sente in diritto di continuare a guidare dopo che ha dato leggera tamponata al veicolo davanti. E mica ha messo sotto qualcuno, saltato la corsia di marcia, passato l’incrocio col rosso! Che vuoi che sia un tamponamento? Ma siete matti a volergli sospendere o ritirare la patente di uomo pubblico?

Ne è talmente convinto Orsoni che di tamponamento si sia trattato, di leggero tamponamento tra un sindaco, un partito e un po’ di mazzette…talmente convinto da saltare, dribblare quello che ovunque sarebbe ovvio ma che qui in Italia è diventato episodico se non addirittura eccezionale. L’ovvio sarebbe che uno resta sindaco dopo che i magistrati gli hanno chiesto scusa o comunque hanno pubblicamente e con atti proclamato la sua innocenza o non rinviabilità a giudizio. Invece Orsoni andava a restar sindaco dopo un patteggiamento di colpevolezza, limitata, piccola. Ma colpevolezza.

Anzi, di qualcosa Orsoni si sentiva per così dire colpevole: di essersi affidato al Pd. Lui racconta di se stesso che non si occupava, neanche vagamente sapeva di bazzecole e miserie quali chi pagava la sua campagna elettorale. Lui, un signore e un professore che si vuole che ne sappia di finanziamenti, di chi finanzia? Orsoni è arrivato a dire ai magistrati che Mazzacurati gli lasciava sì spesso delle buste a casa, ma che lui “non le apriva”. L’Orsoni appena scarcerato dopo otto giorni di domiciliari, più infastidito che contrito. Infastidito, quasi, anzi senza quasi accusatorio nei confronti del Pd che non lo aveva sostenuto durante gli otto giorni. Orsoni che senza accorgersene dava corpo allo “uomo morde cane” del giornalismo: uno che resta sindaco dopo un patteggiamento per finanziamento illecito e se la prende con chi non gli ha fatto scudo e bastone.

Un patteggiamento di troppo che Orsoni non ha visto e che gli è valso a stretto giro di tempo un Daspo politico dal Pd e da Renzi.

Orsoni è oggi l’ex sindaco di Venezia. Finito nell’inchiesta sul Mose e sul fiume di tangenti che intorno a questo orbita, su pressione decisa del Pd, partito di cui fa parte, è stato costretto a dimettersi. Costretto perché come le sue dichiarazioni dimostrano, di lasciare non ne aveva la minima intenzione.

Ci sono stati molti atteggiamenti superficiali e farisaici da parte di alcuni esponenti del Pd – diceva appena ieri a Fabio Poletti de La Stampa -. C’è chi si è affrettato subito a sottolineare che non ero nemmeno iscritto al partito. Si sono comportati come anime belle. Fino al giorno prima del mio arresto mi chiedevano di ricandidarmi a marzo dell’anno prossimo. Poi, di colpo, mi hanno calpestato e scaricato”. E, a Poletti che chiedeva : “A questo punto intende dimettersi?”, rispondeva deciso: “No. Ho deciso di non dimettermi perché non ci sono le condizioni oggettive per farlo. Non ho nulla personalmente di cui rimproverarmi. Potrei con impeto dare le dimissioni e mandare tutti a quel Paese ma non sono impetuoso e non lo faccio anche per un senso di responsabilità verso la mia città. I miei assessori mi hanno manifestato la solidarietà e consegnato le loro deleghe. Voglio ragionare a mente fredda. Mi auguro che non ci siano delle intromissioni da chi ragiona troppo a caldo e che ci sia il rispetto delle decisioni locali”.

“Sono una persona che sicuramente non ha un passato politico e nemmeno un futuro” chiosava Orsoni, e su questo aveva certamente ragione ma, nella sua analisi mancava un dato: il patteggiamento. L’ex sindaco rivendicava e rivendica tutt’ora la sua innocenza: “Sono sicuramente innocente” diceva a La Stampa. Eppure ha scelto di patteggiare una pena di 4 mesi.

“Il patteggiamento – recita Wikipedia – (termine breve per indicare ciò che più correttamente è definito “applicazione della pena su richiesta delle parti”) è, nel contesto della procedura penale, il procedimento speciale caratterizzato dalla richiesta che le parti (imputato e Pm) rivolgono al giudice, di applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva che, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non superi i cinque anni (di reclusione o arresto), sola o congiunta a pena pecuniaria, salvo che a formulare la richiesta sia un imputato che abbia riportato più di una precedente condanna (recidiva reiterata), nel quale ultimo caso l’imputato incontra il limite dei due anni di pena detentiva patteggiabile”.

Un istituto del nostro ordinamento che, come chiunque può capire, sottintende se non una esplicita ammissione di colpevolezza da parte dell’accusato, una sua esplicita convenienza ad evitare il processo vero e proprio. Perché mai infatti un imputato, e nello specifico Orsoni, dovrebbe accettare una pena, seppur ridotta di un terzo, per qualcosa che non ha commesso? Non c’è, a rigor di logica, ragione per cui un innocente non voglia arrivare al dibattimento per dimostrare la propria innocenza. Come non c’è ragione per cui, chi non è innocente, continui a fare il sindaco. A meno che non si consideri, come ha fatto Orsoni, il patteggiamento alla stregua di un micro assegno che si stacca dopo che hai tamponato chi ti stava davanti, un “incidente stradale” quasi inevitabile nella lunga strada dell’uomo pubblico.

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