Berlusconi non voleva Fini in gestione economia, diceva “è Tremonti”, ma…

 

Berlusconi non voleva Fini in gestione economia, diceva "è Tremonti", ma...
Gianfranco Fini a Berlusconi: “Che fai, mi cacci?”

Berlusconi non voleva Gianfranco Fini troppo vicino e soprattutto non voleva cedergli alcuna parvenza di potere oltre quelle che già aveva, nel Governo Berlusconi terzo. Usava Giulio Tremonti come pretesto, ma alla fine la verità venne alla luce, prima per bocca di Gianni Letta, poi dello stesso Berlusconi, che lo confidò a Bruno Vespa.

L’ostilità di Berlusconi probabilmente influì sui rapporti fra i due, che deteriorarono fino alle ben note conclusioni.

Gianfranco Fini, nel suo libro “Il ventennio, io, Berlusconi e la destra tradita”, appena pubblicato, parla dello scontro con Tremonti (così si intitola il capitolo a pagina 145). Ricorda il buco di bilancio, stimato tra i 45 mila e i 60 mila miliardi di lire da Banca d’Italia e Corte dei conti e sempre negato dal Ministro dell’economia e da Berlusconi.

In questo contesto nel quale si aggravavano le difficoltà finanziarie in assenza di adeguate terapie per riequilibrare i conti, Alleanza Nazionale aveva chiesto l’istituzione di una cabina di regia “per garantire collegialità nella politica economica”, scrive Fini, che all’inizio del 2004 portò ad un vertice di maggioranza che stabilì, tra l’altro, il potenziamento del Dipartimento per gli affari economici della Presidenza del Consiglio che doveva essere presieduto dal Vice Presidente, Gianfranco Fini, appunto, che avrebbe avuto anche la responsabilità del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (C.I.P.E.), il cosiddetto Gabinetto economico, composto dalla maggior parte dei ministri. Un organismo che normalmente si riunisce prima del Consiglio dei Ministri.

Alla pagina seguente, Fini ricorda quell’episodio sintomatico dei rapporti con Berlusconi. Lo fa attraverso le parole del mio libro “Un’occasione mancata” (editore Nuove Idee, Roma, 2006).

In particolare Fini riporta quella parte del capitolo intitolato “Sarebbe bastata la “cabina di regia”” nel quale si racconta la vicenda della preparazione dei due provvedimenti necessari per dare attuazione all’iniziativa: il decreto legge che avrebbe dovuto attribuire la Presidenza del C.I.P.E. a Fini Vice Presidente del Consiglio e il decreto di riordinamento del Dipartimento per gli affari economici, il braccio operativo del ruolo di Fini.

Me ne occupai io come Capo di Gabinetto, ma la cosa, come è noto, non è andata. Il balletto della Cabina di regia è durato a lungo, da un venerdì, giorno della riunione del Consiglio dei ministri, al successivo e così via per molti mesi.

Ecco cosa avevo scritto: “Nel corso della settimana c’incontriamo nel mio studio con Baldassarri e Gianfranco Polillo, Capo del D.A.E., per mettere a punto tre testi: il decreto-legge che deve attribuire la presidenza del C.I.P.E a Fini, il decreto del Presidente del Consiglio di riordinamento del D.A.E., la norma che assegna allo stesso Dipartimento le funzioni di valutazione, sotto il profilo economico e finanziario, della normativa proposta dai singoli ministeri per verificarne gli effetti. Una valutazione dell’impatto della regolazione che ricorda, in qualche misura, i poteri che Luigi Einaudi aveva chiesto a De Gasperi nel 1947 per accettare di entrare nel governo all’indomani della guerra. Fu allora il Ministero del bilancio, uno strumento agile che, senza impegnare il ministro in attività di gestione, gli consentiva di tenere sotto controllo la legislazione di spesa.

Ebbene, redatte le norme necessarie ad attuare la cabina di regia le porto al Vicepresidente la mattina del venerdì, prima della riunione del Consiglio dei ministri, perché le dia a Berlusconi.

Al termine chiedo a Fini: “Cos’ha detto Berlusconi?”.

E lui: “ha detto che se le studia nel week end”.

Poi il lunedì mi chiama Antonio Catricalà: “Salvatore, va tutto bene, ma Giulio suggerisce qualche modifica. Niente d’importante, sai. Una virgola qui, un aggettivo là”.

Ne discutiamo. Il più delle volte gli faccio notare che si tratta di piccole cose, che hanno piuttosto il senso di speciose puntualizzazioni per perdere tempo.

“Ma Giulio non vuole che ci siano dubbi sui rispettivi poteri”, mi dice Catricalà.

E così concordiamo quelle piccole modifiche. Una virgola qui, un aggettivo là.

In vista del prossimo venerdì, quando consegno il nuovo testo a Fini perché lo dia a Berlusconi.

E al termine, ancora la solita promessa di Berlusconi di leggersi le carte nel fine settimana. Cosa che effettivamente doveva avvenire (o forse le carte le leggeva Tremonti), perché inevitabilmente il lunedì successivo Antonio Catricalà mi mette a parte dei nuovi dubbi del Ministro, su qualche virgola e qualche aggettivo (diversi dai precedenti, ovviamente), da cambiare.

E così riprendono le consultazioni con Baldassarri, Polillo e Zerman per rivedere il testo.

In questo periodo, avendo saputo che mi occupo della vicenda, Giovanni Quadri, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Parthenope di Napoli, un solido giurista ed un amabile gentiluomo, un’amicizia nata molti anni prima al Ministero della marina mercantile dove eravamo entrambi consiglieri giuridici del ministro, mi invia due suoi scritti sul C.I.P.E. gabinetto economico (Gabinetto economico (C.I.P.E.) e indirizzo politico economico, in Annali della Facoltà giuridica dell’Università degli Studi di Camerino, II, vol. XXXV (1969), 249 e ss; Id., Gabinetto economico (C.I.P.E.) e indirizzo politico economico, Giuffrè, Milano, 1970). Lo ringrazio di cuore per la squisita attenzione e traggo dalla lettura dei due testi qualche ulteriore elemento di valutazione sul lavoro in corso.

Intanto non cambiano le cose. Da un venerdì all’altro la solita pantomima nella quale s’inserisce un certo nervosismo di Fini che sui giornali fa qualche, neppure velata, minaccia di dimissioni. Che poi non sono presentate, per il senso di responsabilità politica del Vicepremier.

Niente cabina di regia, niente Consiglio di gabinetto. Ancora una volta sei mesi perduti”.

Riprendo ancora dal mio libro.

“La cosa non è andata. Berlusconi, a sentire Bruno Vespa, avrebbe riversato la colpa su Tremonti. Ma in realtà è stato Berlusconi ad ostacolare la realizzazione delle decisioni del vertice, nonostante l’incarico previsto per Fini non avrebbe potuto modificare l’equilibrio dei poteri. Infatti, alla guida del D.A.E., con tanto di staff di economisti (Baldassarri immaginava di arruolare anche qualche premio Nobel), con acquisizione autonoma dei dati finanziari dalla Ragioneria generale dello Stato e dalla Banca d’Italia, Fini non sarebbe stato in condizione di scalfire più di tanto i poteri di Tremonti. Sarebbe come, l’ho ripetuto più volte, pensare che una zanzara possa fare il solletico ad un elefante. I poteri del Ministro dell’economia sono tanti e tali che, con quella riforma, Palazzo Chigi poteva diventare solo un interlocutore documentato del Ministro. Ciò non è poco, certamente, ma neppure questo poco è concesso a Fini”.

Completo i ricordo di quei giorni con un aneddoto significativo.

Quando la vicenda della “cabina di regia” si trascinava ancora stancamente da un venerdì all’altro, in occasione della Messa di Pasqua, che si teneva nella “sala verde” al terzo piano di Palazzo Chigi, approfittando della presenza di Gianni Letta, come me presente con qualche anticipo, gli sussurrai “Direttore, intervenga su Tremonti. Il ruolo di Fini non potrà comunque limitare il potere del Ministro dell’economia”.

Letta si girò verso di me e con tono perentorio, a lui non consueto, mi disse: “Consigliere, ma non ha ancora capito che è Berlusconi che non vuole”.

In sostanza come avrebbe scritto di lì a qualche mese, nel suo consueto volume di fine anno, Bruno Vespa.

 

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