Burocrazia: senza, Stato si sfascia. Renzi occhio: Serve cambiare, non rottamare

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 25 Ottobre 2014 - 11:48 OLTRE 6 MESI FA
Burocrazia: senza, Stato si sfascia. Renzi occhio: Serve cambiare, non rottamare

Matteo Renzi con Maria De Filippi. Per compiacere il pubblico di Amici rischia di mettere n crisi la macchina dello Stato

Una appassionata arringa a difesa del ruolo della burocrazia nel buon funzionamento di uno Stato, nel passato come, si presume, anche nel futuro, è la parte rilevante dell’articolo di Salvatore Sfrecola.

Prendendo spunto dalla domanda “Cosa insegna la tragedia di Genova?” esamina i problemi specifici del caso italiano e gli errori che il Governo di Matteo Renzi rischia di commettere facendo di tutt’erba un fascio e confondendo l’esigenza di cambiare e rinnovare con la demagogia. L’articolo è stato pubblicato anche sul blog “Un sogno italiano”.

Il bollettino delle vittime e dei danni a Genova ed i servizi mandati in onda dalle televisioni ripetono frasi già lette e ripropongono immagini già viste, non solo nel capoluogo ligure. Con il seguito delle polemiche nelle quali all’indignazione delle persone si aggiungono tentativi maldestri delle autorità di scaricare su altri responsabilità evidenti. Dalla mancata esecuzione delle opere di difesa del territorio al ritardo nell’allerta meteo che non avrebbe potuto limitare i danni ma dare almeno un’immagine di parziale efficienza delle amministrazioni interessate.
Nel rimpallo delle responsabilità che è specialità antica dei nostri politici si sono esibiti anche giornalisti di varie testate, soprattutto i radio-televisivi, alla ricerca del responsabile che piace agli ascoltatori. E allora cosa c’è di meglio che scaricare tutto sulla burocrazia, sui ritardi burocratici e sui giudici che sospendono gli effetti di un gara? Senza spiegare, senza far capire, senza contribuire ad individuare gli snodi veri delle procedure e delle connesse responsabilità.
Cominciamo col dire che l’esondazione dei fiumi e dei torrenti che ha invaso alcuni quartieri di Genova, è conseguenza di errori antichi nella cura dell’assetto idrogeologico dell’area, senza che siano state per tempo predisposte misure di regolazione delle acque, con possibilità di deviarle in modo da salvaguardare le persone e i loro beni.
Da quando l’autorità pubblica si occupa del regime del territorio e delle acque, cioè da sempre, da quando dalle tribù si è passati a quelli che Massimo Severo Giannini ha insegnato a definire “ordinamenti generali”, questi problemi sono stati affrontati e risolti. Dalla regolazione delle acque del Tevere, con la deviazione del suo corso che ha formato l’isola Tiberina, alla bonifica delle paludi pontine. Nell’attraversare la città il fiume esondava frequentemente. Le sponde erano rocciose e le acque stagnanti favorivano febbri che i quiriti non potevano continuare a tenere lontane solo pregando la dea della competente per materia.

Gli ingegneri romani non disponevano del tritolo che oggi avrebbe consentito di allargare rapidamente il letto del fiume, così fecero un’archiviazione e crearono l’isola. Per lo stesso motivo le paludi pontine furono bonificate; costituivano un pericolo per la salute delle popolazioni locali. E quando, a seguito della caduta dell’impero romano, venne meno l’organizzazione amministrativa che tutelava quel territorio la palude riprese l’avvento sino a quando non fu deciso un nuovo intervento, negli anni trenta.

È un primo insegnamento. Roma aveva un’organizzazione amministrativa che assicurava la cura concreta degli interessi pubblici (espressione, questa, con la quale indichiamo appunto la funzione amministrativa). Chi ha letto il romanzo storico di Robert Harris su Pompei ricorda certamente il ruolo dell’acquarius, un ingegnere incaricato di tenere sotto controllo gli acquedotti che dipendeva da una autorità centrale a Roma, il magister acquarum.
A me piace ricordare la straordinaria organizzazione amministrativa della Repubblica e dell’Impero romano della quale dovremmo essere orgogliosi e gelosi custodi. Ma ho più volte ricordato anche l’ottima organizzazione amministrativa dello Stato italiano, ad esempio quando ho fatto riferimento al sorvegliante idraulico, un dipendente dell’allora Ministero dei Lavori pubblici che aveva il compito di monitorare l’andamento delle acque dei fiumi al fine di evitare che ammassi di vegetazione favorissero l’esondazione dei fiumi.
Questa lunga premessa, della quale i lettori mi faranno grazia, ci induce a riflettere su una realtà, che io richiamo frequentemente, quella del ruolo fondamentale dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di attività di interesse generale e per la realizzazione del programma di governo. Ritorno sull’argomento perché il Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi, ha giustamente richiamato all’atto dell’assunzione della sua responsabilità di governo e nel programma presentato alle Camere l’esigenza di una profonda riforma della pubblica amministrazione.
Riformare l’amministrazione significa tante cose insieme che ho l’impressione che non siano state percepite dal Premier e dal Ministro competente, la leggiadra Signora Madia, perché l’intervento finora attuato appare assolutamente inadeguato, parziale e spesso velleitario.
È fin troppo evidente che l’amministrazione pubblica varia nel tempo in relazione agli obiettivi che l’autorità governativa (più esattamente il Parlamento) ritiene di dover affidare alle sue cure. Varia quanto alle competenze e conseguentemente alle procedure con le quali opera ed alla qualificazione professionale dei suoi addetti. In parole povere una riforma della pubblica amministrazione deve partire da una ricognizione dei settori di intervento, individuando le modalità operative che identificano anche le professionalità occorrenti ed il numero degli addetti. Non c’è dubbio infatti che l’amministrazione pubblica italiana è nata in tempi lontani e, pur oggetto di plurime riforme, richiede ancora adeguamenti quanto alle aree di intervento e dalle procedure, con la conseguenza che occorrerà anche rivedere le professionalità necessarie.
Un esempio per tutti, banale ma significativo. Esisteva un tempo in tutte le Amministrazioni pubbliche un’ampia dotazione organica di dattilografi. L’avvento dei computer ha eliminato sostanzialmente questa professionalità, nel senso che i funzionari tenuti a redigere provvedimenti di varia natura dispongono nel loro computer di modelli che adattano di volta in volta in relazione alle esigenze del provvedimento che viene redatto.
Credo che se qualcuno avesse dato un buon consiglio al Presidente Matteo Renzi e se questi lo avesse ascoltato sarebbe stato utile per l’immagine del Governo e per il bene degli italiani che per la prima iniziativa da assumere fosse quella di una semplificazione dei procedimenti più ricorrenti per dare immediatamente ai cittadini il senso del cambiamento attraverso l’accettazione di una istanza generalmente diffusa, quella di eliminare duplicazioni di competenze e adempimenti inutili che appesantiscono la vita delle persone e delle imprese.

Sempre nell’ottica che queste semplificazioni non facciano venir meno il requisito della legalità che deve caratterizzare uno Stato moderno.

Oggi esistono strumenti i quali consentono di incrociare dati e situazioni rendendo automatica una serie di controlli, ad evitare quelle furbizie italiche delle quali si è spesso parlato, agevolate da autocertificazioni non veritiere e non punite. Molti fidano della sorte e nella ampia probabilità di rimanere impuniti.
Dopo questo primo impatto, certamente gradito all’opinione pubblica, si sarebbe aperta la strada a più significative modifiche dell’ordinamento amministrativo attraverso la ricognizione delle cose da fare e del modo in cui farle il che significa anche, come accennato, identificare le professionalità attualmente necessarie ed il numero degli addetti occorrenti.
Nulla di tutto questo. Si ha infatti netta la sensazione, anche con riferimento ai tagli di spesa ipotizzati, che manchi una consapevolezza della esigenza effettiva dell’apparato amministrativo dello Stato. Il Premier personalmente non ha esperienza e i suoi collaboratori non è che ne hanno di più.

Inoltre a volte si ha l’impressione che a guidare le scelte sia una certa ostilità preconcetta nei confronti di alcuni istituti e che si sia voluto intimidire in qualche modo i vertici dell’Amministrazione e della Magistratura, colpendoli attraverso i pensionamenti anticipati e la riduzione dei trattamenti stipendiali, presentati come iniziativa propedeutica ad un necessario ricambio generazionale. Che, peraltro, non è alle viste.
Diciamo subito che la individuazione dell’età del pensionamento per i dipendenti civili e per i magistrati non costituisce un problema, neppure per i sindacati e per le Associazioni di categoria, anche se riproduce indicazioni largamente superate dall’evoluzione biologica delle persone, soprattutto di quelle che svolgono attività intellettuali che si basano sull’esperienza e sulla cultura professionale.
Va bene dunque anche 65 anni per i dipendenti pubblici e 70 per i magistrati, ma non è stata una scelta saggia quella di colpire quanti avevano in corso o stavano per iniziare il periodo di trattenimento in servizio previsto dall’ordinamento.

Questo ha determinato palesi ingiustizie e soprattutto, in particolare per la magistratura, ha creato problemi non indifferenti nella attività degli uffici giudiziari, improvvisamente o in un arco di tempo limitato, privati dei capi degli uffici, con una sostanziale diminuzione del personale disponibile e con conseguenze gravi per i processi che dovranno iniziare daccapo e quindi probabilmente essere definiti con una pronuncia di prescrizione. La preoccupazione per i processi di mafia e corruzione, conseguenze che non potranno certamente essere gradite dall’opinione pubblica.
Per non dire che è pressoché certo che la raffazzonata “riforma” sarà per molte norme smontata dai giudici amministrativi e dalla Corte costituzionale.
Quanto al trattamento economico dei dipendenti pubblici, la polemica nei confronti di alcune posizioni stipendiali particolarmente elevate ha nascosto la realtà di trattamenti economici che, a parità di responsabilità con il mondo dell’imprenditoria privata o anche in rapporto alle condizioni assicurate a posizioni equivalenti di altri Stati dell’Unione Europea, non sono poi particolarmente remunerative in relazione alla professionalità e all’esperienza richieste.
Parliamo di professionalità. Chi conosce l’amministrazione, ed io presumo di disporre di una vasta esperienza maturata dal magistrato e da consulente di ministri, sa bene che, accanto ai fannulloni di brunettiana memoria, vi sono rilevanti eccellenze in tutti i settori. Ho incontrato nel settore sanitario autentici scienziati, tecnici di valore al ministero delle infrastrutture, economisti e giuristi di straordinaria professionalità in tutti i ministeri.

C’è, infatti, accanto alla vulgata per la quale il pubblico servizio sarebbe una sorta di ripiego per chi non trova una migliore collocazione, una tradizione nelle amministrazioni civili e militari e nella magistratura di soggetti che, per consuetudine familiare e per convinzione profonda, ritengono di grandissimo prestigio servire lo Stato.

Accade nelle migliori amministrazioni del vecchio continente, dalla Francia che ha preparato i propri funzionari attraverso l’Ecole Nationale d’amministration, alla Spagna, al Regno Unito, alla Repubblica federale tedesca. In queste realtà lo Stato arruola i migliori professionisti.
Inoltre, dopo il 1989, le pubbliche amministrazioni dell’Europa hanno deciso di creare una serie di reti per la cooperazione reciproca e lo scambio di buone pratiche e di esperienze. La più importante tra queste è la Rete europea della pubblica amministrazione (EUPAN), composta dai direttori generali della pubblica amministrazione degli Stati membri.
Queste esperienze inducono ad alcune riflessioni elementari. E ad una domanda. Lo Stato e gli italiani desiderano un’Amministrazione con poche eccellenze e molte mediocrità o vogliono una vasta efficienza e capacità di gestione di tutti coloro i quali sono chiamati a gestire risorse pubbliche?

In questo caso si pone il problema di verificare i criteri del reclutamento ed il livello del trattamento economico, aspetti intimamente connessi perché il reclutamento esige una selezione rigida e funzionale al ruolo che il candidato dovrà ricoprire. Come è evidente che per poter disporre di professionisti adeguatamente preparati va individuato un trattamento retributivo che renda appetibile quella funzione rispetto ad altre pubbliche o private offerte del mercato del lavoro.
Sbaglia, dunque, il Governo quando in un impeto di rottamazione limita il trattamento economico di alcune categorie con un duplice effetto negativo.

Quello di scoraggiare i presenti nei ruoli pubblici ad un impegno a fronte del quale non viene più riconosciuto quello che lo Stato aveva promesso ed in relazione al quale era stata scelta quella carriera rispetto ad opzioni presenti al momento dell’ingresso nell’amministrazione, un effetto che si riprodurrà negli anni a venire scoraggiando i migliori dall’intraprendere una carriera nell’amministrazione pubblica. Naturalmente parliamo di stipendi buoni, senza giustificare eccessi che in taluni settori si sono verificati.
Non comprendere queste elementari verità significa condannare l’amministrazione pubblica ad un progressivo degrado, allontanando dagli uffici e dai servizi dipendenti dal governo dello Stato e degli enti locali professionalità che sarebbero preziose per assicurare l’efficienza che, come ho detto, è condizione del perseguimento degli obiettivi propri delle politiche pubbliche in tutti i settori.
Questo problema, del reclutamento e della retribuzione, riguarda tutti i settori della amministrazione.

Qualche esempio per capire. Il mio professore di storia e filosofia al liceo “Tasso” di Roma era laureato in giurisprudenza. Aveva vinto prima della seconda guerra mondiale il concorso in magistratura e quello a professore ordinario nei licei statali. Aveva scelto di fare il professore perché in quel momento storico i docenti di scuola media superiore avevano un trattamento economico superiore a quello dei magistrati.
Né va trascurato, perché incide pesantemente sulla condizione di vita, il problema della sede di servizio, spesso è lontana da quella di provenienza. Per i dipendenti pubblici, dunque, la prima nomina si trasforma in una riduzione di stipendio perché sono costretti a vivere lontano da quella della residenza di famiglia. Devono affittare un appartamento e assumere oneri che non avrebbero sostenuto nella città di provenienza.

È un problema che il datore di lavoro Stato o ente pubblico si deve porre. È chiaro che molti, giunti giovani in una città spesso vi si radicano, formano una famiglia e quindi riassorbono in qualche modo questi oneri straordinari. È comunque una situazione di iniziale disagio molto diffusa, massima per i magistrati i quali, a differenza degli altri dipendenti pubblici sono soggetti a plurimi trasferimenti, come i militari. Ma, mentre questi sono assistiti dall’organizzazione, che spesso mette a loro disposizione degli alloggi, per i magistrati si determina un disagio che si trasforma, come già accennato, in una riduzione netta dello stipendio. Una situazione che si riproduce al termine della carriera quando vanno a ricoprire incarichi delicati quali presidenti o procuratori generali di corte d’appello, di tribunali i procuratori della Repubblica, lontano dalla città di residenza. Questione assolutamente ignorata dalla organizzazione dello Stato.
Quando si parla, dunque, di dipendenti pubblici dei loro “lauti” stipendi occorre fare la tara nei termini già detti e pensare prima di tutto alle esigenze del reclutamento. Insomma i cittadini italiani con tanta facilità criticano, in questi ultimi tempi stimolati dalla politica che ha individuato, tra gli altri, i dipendenti pubblici con il nemico, l’avversario da abbattere, devono decidere se vogliono funzionari pubblici di valore o lo scarto delle professioni. Un francese, un inglese, uno spagnolo, un tedesco non avrebbero dubbi: servire lo Stato è un onore e un onere, spetta ai migliori dai quali ci si attende un impegno adeguato.