Corruzione, non solo mazzette, miasma sottile, male diffuso e radicato

Corruzione, non solo mazzette, miasma sottile, male diffuso e radicato
Non solo mazzette: la corruzione è un male diffuso e spesso impalpabile

Salvatore Sfrecola ha pubblicato questo articolo anche per il suo blog, Un sogno italiano, col titolo “Come e perché la corruzione”.

Sto lavorando ad un libro sulla corruzione in cui  analizzare il fenomeno illecito definito “corruzione”, così come prevalentemente lo intende l’opinione pubblica, che non lo identifica esclusivamente nei fatti che emergono a seguito delle indagini delle Procure della Repubblica in tema di reati contro la pubblica amministrazione.

Diffusa, infatti, è la convinzione che debba essere addebitata a corruzione quella serie numerosa di strappi alla legalità che, come insegnano storia ed esperienza, vengono perpetrati giornalmente ovunque l’interesse di un privato ad ottenere un vantaggio non dovuto o, se dovuto, in anticipo rispetto ai tempi ordinari, incontra la disponibilità di una persona delle istituzioni che chiude un occhio perché non vuole intervenire o, più spesso, perché ne trae o immagina di trarne un qualche vantaggio, indipendentemente dalla misura della ricompensa, sia essa in denaro o in altra utilità, in un patto scellerato che vincola corrotto e corruttore ad una omertà sempre difficilmente penetrabile.
In questa fase preparatoria del libro, nella quale vado riordinando idee e mettendo in fila i documenti raccolti, ho pensato, pertanto, di anticipare alcune riflessioni su dove si annida e attraverso quali condotte si realizza l’illecito corruttivo e di riandare alla miriade di comportamenti che realizzano illeciti attraverso l’alterazione delle regole, anche non scritte, che attengono alle attribuzioni proprie delle pubbliche amministrazioni, consentite da dipendenti infedeli che non vedono o “fanno finta” di non vedere, accettano documentazione falsa o manomettono le procedure per un qualche diretto o indiretto vantaggio.

Non solamente quando sono in gioco rilevanti interessi, ad esempio, in materia di appalti di lavori o nella fornitura di beni o servizi pubblici, come spesso si ritiene. L’illecito, come vedremo, è molto più diffuso e pervade tutti i settori della vita sociale.

Ovunque vi sono regole da far rispettare o interessi pubblici, anche non finanziari, che attengono alla stessa immagine delle istituzioni è possibile emergano interessi indebiti che, se tolleratiti, danno delle istituzioni l’immagine deteriore di un corpo estraneo al buon funzionamento della società, lontane dagli interessi dei cittadini onesti, spesso ingenerando la convinzione di una sorta di anarchia dove vige la regola del più forte o del più furbo che impunemente può aggirare le regole.

Dico impunemente perché troppo spesso il cittadino ha l’impressione che si possa ottenere vantaggi non dovuti nel silenzio, evidentemente colpevole, delle pubbliche autorità di fronte a violazioni di regole che solamente i “fessi” rispettano. E si chiede perché ciò sia possibile e se sia endemico l’assoggettamento dello Stato e degli enti pubblici a questi interessi estranei.

Perché lo scempio del territorio, tra incendi e interramento di rifiuti tossici (come nella terra “dei fuochi”), l’inquinamento delle acque e delle falde, il danneggiamento del patrimonio storico artistico, sotto gli occhi di tutti, accanto alle responsabilità penali di chi è soggetto attivo di questi scempi vi sono colpe gravissime di chi avrebbe dovuto e potuto impedire tutto questo. Non solo della malavita che inquina, dunque, ma di chi consente che inquini.

Di fronte a questo diffuso stato di illegalità che la gente percepisce con tutto il suo carico di esteso in tutti i settori di ciò che è pubblico, combattere i fenomeni di devianza rispetto alle regole, siano propriamente corruzione in senso penalistico, violazione di comportamenti prescritti da codici di comportamento o etici, spreco di pubblico denaro o incuria per i beni del patrimonio pubblico, è una battaglia di civiltà, come tale sentita dalle persone oneste.

Le quali vorrebbero che emergesse nella società nel suo complesso la consapevolezza che la legalità è una condizione imprescindibile in uno stato bene ordinato e che il riconoscimento dei diritti e la tutela degli interessi non va perseguito attraverso la scorciatoia della raccomandazione o della mazzetta, perché l’autorità pubblica li riconosce e li tutela senza la necessità di illecite intermediazioni.

Il libro intende ripercorrere, attraverso una ricognizione di fatti segnalati dalla stampa o denunciati in documenti pubblici e sentenze, quella diffusa e spesso impalpabile violazione delle regole per interessi privati che inducono molti cittadini a ritenere che la violazione di alcune norme, ad esempio di quelle tributarie, sia quasi una necessità di sopravvivenza e, pertanto, moralmente accettabile, come percorrere un tratto di strada contromano per non girare intorno ad un immobile o elargire una mancia ad un usciere perché presenti la documentazione necessaria ad un ufficio, allo scopo di evitare di mettersi in fila allo sportello o di ottenere prima del dovuto un provvedimento.

Naturalmente l’usciere è una pedina in una più ampia violazione delle regole, anche del buon andamento della pubblica amministrazione nell’ambito della quale le pratiche negli uffici devono essere esaminate e decise secondo la rigida cronologia data dall’ordine della presentazione delle domande, violazione che coinvolge necessariamente chi ha protocollato l’istanza e chi, in relazione ad essa, assume un provvedimento.

Qualcuno dirà che non si tratta di fatti particolarmente gravi. In primo luogo va detto che qualunque violazione della legge costituisce una lesione di quel principio di legalità che deve caratterizzare la vita ordinata di una società civile. Inoltre tante piccole violazioni della legge ripetute nel tempo e diffuse, nella convinzione che si-è-fatto-sempre-così e che, in qualche modo, sia la strada giusta anche per ottenere il dovuto, contribuiscono a creare l’humus sul quale si fonda quella insensibilità per le violazioni che realizzano più significative lesioni degli interessi della pubblica amministrazione sotto il profilo del buon andamento e della imparzialità delle attività di competenza che spesso si manifestano attraverso oneri non dovuti a carico dei bilanci pubblici.

Con utilità, in denaro o in altri vantaggi, per l’amministratore o il funzionario pubblico che ha mancato al proprio dovere di operare nel rispetto rigoroso della legge. In ogni caso con effetti negativi per la Pubblica Amministrazione, si tratti di una spesa inutile o eccessiva, cioè di sprechi, o di entrate non riscosse, come nel caso del pubblico funzionario che “chiude un occhio” e non provvede alla riscossione di una sanzione.

Comportamenti illegittimi e/o illeciti, che sono in contrasto con l’etica pubblica e con i codici di comportamento eppure sovente giustificati, sotto il profilo del corruttore, dall’esigenza di scorciatoie che superino i lacci e lacciuoli della burocrazia oppressiva e costosa in termini di tempo, un dato della realtà che troppo spesso sottovalutato.

Infatti non è indifferente per chi vi ha interesse che un provvedimento sia adottato oggi o tra un anno. Ed è noto che uno degli argomenti critici nei confronti della pubblica amministrazione è quello che, tra l’altro, sconsiglierebbe investimenti, soprattutto stranieri, in ragione proprio dei tempi lunghi e incerti di molti provvedimenti autorizzatori.

Al punto che il fenomeno corruzione appare come una condizione endemica, conseguenza di una diffusa assuefazione, in mancanza, come dice Raffaele Cantone, Commissario Nazionale Anticorruzione, di una “stigmatizzazione sociale”. Un concetto ribadito ai primi di settembre a Cernobbio in occasione del Workshop Ambrosetti: dagli anni 90 per la lotta alla corruzione “non si è fatto nulla. Si è fatto finta che fosse stata eliminata con le indagini”.

La situazione è peggiorata con l’eliminazione del falso in bilancio e con la riforma costituzionale del titolo quinto: “è stato un danno enorme perché ha moltiplicato i centri di spesa ed eliminato ogni sistema di controllo sulla pubblica amministrazione” (Corriere della Sera 8 settembre 2014, pagina 6).

Anche Pier Camillo Davigo, giudice di Cassazione e già pubblico ministero nel pool “mani pulite”, intervenendo nella stessa occasione, sottolinea come “la vera anomalia, oltre alla criminalità organizzata e la massiccia devianza delle classi dirigenti” è la circostanza che “non c’è biasimo della società, non c’è un costo reputazionale nel commettere reati finanziari” (Corriere della Sera, citato).

In sostanza la giustificazione dei piccoli fenomeni illeciti finisce per far apparire meno gravi i grandi eventi corruttivi nei confronti dei quali non sono stati messi in campo adeguati anticorpi capaci, da un lato, di sviluppare la necessaria indignazione sociale, dall’altro, di adottare norme che impediscano lo svilupparsi del fenomeno. Gravissimo se Papa Francesco è stato indotto a scrivere che “il peccato si perdona, la corruzione non può essere perdonata” (“Guarire dalla corruzione”, EMI, 2013).

Qualche esempio per far capire. La gente borbotta ma considera normale che l’agente della polizia municipale non multi l’auto del commerciante lasciata in seconda fila per ore e che al bar consumi la colazione senza passare dalla cassa. E osserverà che i tavolini sul marciapiede vanno al di là dell’area consentita con regolare autorizzazione o insistano sullo stesso marciapiede senza autorizzazione. Ugualmente per gli edicolanti che si allargano con esposizione della merce venduta al di là dei limiti dell’autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico.

Un episodio significativo di certa mentalità. Alcuni anni fa, svolgendo le funzioni di Procuratore della Corte dei conti ricevetti il Segretario di un piccolo comune del Lazio il quale mi aveva portato letteralmente di peso l’unico vigile urbano del paese il quale non notificava le ordinanze dei verbali di contravvenzione per violazioni del codice della strada de altre ordinanze.

Di fronte a me quel giovane agente si giustificò dicendo che i destinatari di quelle notifiche erano tutti i suoi amici e, quindi, non se la sentiva di consegnare loro ingiunzioni di pagamento. Quell’agente evidentemente non era corrotto, almeno non appariva tale nel senso che probabilmente non veniva in qualche modo compensato per le sue omissioni.

Due cose, tuttavia, sono certe. Veniva meno ad un suo preciso dovere istituzionale e non se ne preoccupava e, probabilmente, godeva di qualche vantaggio, magari neppure richiesto, in quanto i destinatari della omessa notifica erano imprenditori e all’occorrenza gli sarebbero stati certamente grati.

Come combattere, dunque, la corruzione, cercando di prevenirla con adeguati presidi, laddove si annidano le occasioni e si realizzano gli illeciti, intervenendo con norme che assicurano trasparenza, vigilanza e controlli, interni ed esterni alle pubbliche amministrazioni, in modo da evitare l’intervento del giudice penale che giunge sempre troppo tardi, quando l’illecito si è consumano con il suo seguito di danni erariali in termini di maggiori costi e di lesione dell’immagine della P.A. quella immagine deteriorata che giustifica nuovi illeciti? Si tratti di un’opera pubblica realizzata in ritardo o non a regola d’arte, sicché si richiedono presto interventi di manutenzione straordinaria che hanno un costo, in denaro e in immagine della pubblica amministrazione appaltante oppure di una fornitura di beni o servizi scadenti o inutili.

Un recente libro di Barbieri e Giavazzi “Corruzione a norma di legge” (Rizzoli, 2014) secondo il quale la lobby delle grandi opere “affonda l’Italia”.
Avvalendomi di esempi tratti dalla cronaca giornalistica e giudiziaria, dalle riflessioni degli studiosi, dai documenti delle pubbliche amministrazioni e dal grido di allarme delle associazioni che tutelano il cittadino il libro intende andare agli eventi che rivelano sprechi e corruzione, gli uni spesso funzionali a quegli illeciti nei quali concretamente si realizza la fattispecie penale e non solo. Sono, infatti, convinto che, anche quando non qualificata come corruzione ai sensi della relativa norma del codice penale, molti di quelli che definiamo danni erariali rientranti nelle attribuzioni giurisdizionali della Corte dei conti hanno la connotazione sostanziale della corruzione.

È mia ferma convinzione, infatti, che l’amministratore o il funzionario al quale possono essere addebitati sprechi di pubblico denaro se non è un incapace è certamente indotto a tali comportamenti dal desiderio di realizzare per se e/o per altri vantaggi finanziari o patrimoniali, un incarico dei lavoro per sé o per un familiare, l’acquisto a prezzi particolarmente vantaggiosi di un immobile o la sua ristrutturazione, una vacanza gratis e quanto altro l’italica fantasia può immaginare.

Attraverso un ricco catalogo di fatti illeciti mi propongo, dunque, di individuare dove è necessario intervenire per prevenire e, quindi, evitare che lavori e forniture pubbliche siano inutili e, inoltre, non gravino sui bilanci dello Stato o degli enti in misura superiore al dovuto, che le entrate siano puntualmente assicurate all’erario. Ugualmente che i beni patrimoniali, che sono una ricchezza del nostro Paese, non siano abbandonati o utilizzati per interessi privati non meritevoli di apprezzamento.

A proposito di beni pubblici, quelli del patrimonio storico artistico, il più grande di tutti gli stati, sono stesso colposamente abbandonati al punto di facilitare la loro sottrazione da musei e zone archeologiche, fatti che alimentano un mercato clandestino al quale non è estranea la malavita organizzata, anche con scambio di opere d’arte con partite di droga.

Nel tentativo di ricostruire gli strumenti di contrasto allo spreco e alla corruzione punterò molto sul ruolo della Corte dei conti, organo di controllo titolare di notevoli attribuzioni ai sensi dell’art. 100, comma 2, della Costituzione e delle leggi che vi hanno dato attuazione e giudice nelle “materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”, come si esprime l’art. 103, comma 2.

Un complesso di norme poste a presidio della corretta gestione del denaro e dei patrimoni pubblici dei quali i magistrati contabili si avvalgono al meglio pur nella difficoltà di una dotazione organica assolutamente insufficiente, mantenuta da anni al di sotto, non solo delle effettive esigenze, ma financo della formale consistenza del ruolo (poco più di 600 unità) che denuncia, come ripetutamente segnalato dall’Associazione Magistrati, una carenza di oltre il 30 per cento, gravissimo solo che si considerino le esigenze di vigilanza e controllo che possono emergere nella gestione delle molte centinaia di miliardi di euro da parte di 26 ministeri, 20 regioni, oltre 100 province ed più di 8 mila comuni.

Al termine, mi auguro di poter individuare molti dei “buchi neri” nei quali spariscono risorse pubbliche e di poter suggerire al legislatore e alle amministrazioni rimedi per evitare che ogni anno rilevanti risorse che potrebbero essere destinate a servizi essenziali per la società e per i singoli cittadini cadano nelle mani di politici, funzionari ed imprenditori disonesti.
18 ottobre 2014

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