La vicenda dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, ripropone temi della nostra memoria. Anche io come la gran parte dei ragazzi della mia generazione ho letto avidamente i libri di Emilio Salgari, o Salgàri, come dice qualcuno, correndo con la fantasia tra le rive del Gange, le foreste del Borneo e le acque calde dei Caraibi, tra Sandokan e il Corsaro Nero, Conte di Ventimiglia. Personaggi affascinanti, uomini che rivendicavano un ruolo del quale erano stati privati dalle ingiustizie del potere. Rubavo spesso tempo al sonno per divorare quelle descrizioni dei fatti e dei luoghi affascinanti lontani dai panorami della mia città. Apprezzavo il coraggio e la generosità dei vari protagonisti, il senso dell’amicizia e della solidarietà che li legava nella vita avventurosa che avevano scelto o che erano stati costretti a seguire. Così solo più avanti ho attribuito un valore negativo al termine “pirata” distinto da “corsaro”, inteso come colui che conduceva una guerra di corsa sotto l’egida di una nazione in competizione con altra. Spagna e Inghilterra saranno concorrenti sugli oceani per secoli. Basta ricordare Sir Francis Drake e Morgan, il conquistatore di Maracajbo. Ricordi lontani. Più di recente in alcuni mari, dall’Oceano Indiano alle coste della Somalia, abbiamo riscoperto ben altri pirati, taglieggiatori violenti, estorsori, che rendono pericolose le linee di navigazione mercantili e turistiche, per cui si è reso necessario un intervento degli stati per difendere il naviglio di bandiera. Come, del resto accadeva nei secoli passati, da parte della Serenissima Repubblica di Venezia che aveva un apparato navale militare adeguato alle esigenze di tutelare le naviglio da trasporto. Più indietro nel tempo si potrebbero ricordare le imprese di Cesare contro i pirati che sconfisse dopo essere stato da loro catturato ed aver pagato il riscatto. Come aveva promesso. Gli Stati, dunque, contro i pirati a difesa degli interessi nazionali. In questa ottica l’Italia ha assicurato sul naviglio mercantile in navigazione nelle aree a rischio un presidio armato, qualificato ed efficiente, affidato a fucilieri del Battaglione San Marco perché non vadano dispersi beni di proprietà italiana e messi in forse i traffici necessari alla nostra economia. Come dunque possa configurarsi nei confronti dei due militari italiani imbarcati sulla Enrica Lexie una accusa di pirateria per aver involontariamente ucciso due pescatori indiani dei quali erano state equivocate le intenzioni è un assurdo giuridico palese. Militari sotto comando di uno stato sovrano non possono mai essere altro che soldati e come tali vanno trattati secondo le regole dei rapporti tra stati. E qui va aggiunto che l’India, che nell’immaginario collettivo è certamente Paese di antica e ammirata civiltà, dove vige la filosofia della tolleranza ed il rispetto delle persone, forse perché ricordiamo tutti l’insegnamento di Ghandi sulla non violenza, si è rivelata, sul piano giudiziario, un oscuro angolo di arretratezza giuridica. Non solo per i tempi delle indagini ancora non definite con una formale imputazione, ma perché di fatto è evidente la strumentalizzazione del caso per fini politici interni, volgarmente elettoralistici, in barba ai trattati internazionali, approfittando di aver a che fare con una Italia incapace di far valere i propri diritti, probabilmente per altrettanto volgari interessi economici. Il nostro Paese si sta facendo ricattare da uno stato non degno di questo nome. È questa la conclusione cui si deve pervenire. Incapaci, come abbiamo dimostrato, di difendere le nostre ragioni, noi che avevamo sperimentato un ben diverso comportamento delle autorità militari e statali statunitensi, almeno nell’occasione dell’incidente del Cermis. In quel caso abbiamo preso uno schiaffone e ce lo siamo tenuti offrendo cristianamente l’altra guancia. Ma visto che le guance sono due, come aveva spiegato in un film sulle persecuzioni anticristiane nel Messico dell’ottocento un sacerdote che non aveva esitato a sferrare un pugno al suo aggressore, avremmo dovuto mostrare il volto serio e deciso di uno stato che non è disponibile a subire un sopruso. Invece la questione, nata male per effetto del comportamento del comandante del mercantile è proseguita peggio con incertezza di comportamenti sul piano diplomatico e giudiziario. Errori che paghiamo. Perché ogni azione va rapportata alle condizioni nelle quali ci si trova ad operare ed all’avversario. Visto l’atteggiamento apertamente ricattatorio dell’India, nelle sue varie configurazioni istituzionali, avremmo dovuto applicare misure atte a dissuadere dal proseguire nell’atteggiamento ostruzionistico e dilatorio. Insomma il nostro governo ha giocato sulla pelle dei due militari e sui sentimenti delle loro famiglie e del popolo italiano per evidenti interessi economici di chi deve fare affari con l’India. Affari certamente importanti e meritevoli di tutela. Ma prima viene la dignità dello Stato. Che non avremmo mai dovuto perdere.
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