Jus soli, identità e cittadinanza, le ragioni di un diritto, le ragioni di chi lo nega

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 1 Luglio 2017 - 07:05 OLTRE 6 MESI FA
 Jus soli, identità e cittadinanza, le ragioni di un diritto, le ragioni di chi lo nega

Jus soli, identità e cittadinanza, le ragioni di un diritto, le ragioni di chi lo nega (Foto ANSA / CIRO FUSCO)

Adattato da “Identità e cittadinanza”, articolo di Salvatore Sfrecola, pubblicato integralmente su logos-rivista.it.

Il dibattito, in Parlamento e nel Paese, è vivacissimo e assai spesso ha assunto i toni di uno scontro sui valori fondanti della democrazia, quelli che costituiscono in qualche modo l’identità di uno Stato. E ciò perché il disegno di legge n. 2092, all’esame del Senato, recante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”, divide profondamente, e non soltanto per motivi di merito.

Nel merito, va detto a chiare lettere che la disciplina della cittadinanza non è una legge qualunque, perché l’essere cittadino non è un fatto formale, burocratico, come si sente dire, ma il riconoscimento dell’appartenenza ad un contesto culturale, il che vuol dire a valori, in primo luogo a quelli indicati nella Costituzione: principi fondamentali, nei rapporti civili, economici e politici che fanno dell’Italia un Paese nel quale lo Stato “riconosce e garantisce i diritti inviolabili, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2), per cui tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge” (art. 3), assicura la libertà dei culti (art. 8), la libertà personale (art. 13), del domicilio (art. 14), della corrispondenza (art. 16), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di manifestazione del pensiero (art. 21) e via dicendo. Diritti, ma anche doveri, di cui uno “sacro”, come “la difesa della Patria” (art. 52), la fedeltà alla Costituzione e alle leggi (art. 54). Una somma di “regole della democrazia e della convivenza”, che identificano la storia e l’essere di un popolo che, pertanto, è tale e si qualifica come italiano. Quel popolo in nome del quale i giudici amministrano la Giustizia (art. 101, Cost.). La cittadinanza lo certifica, in Italia, come ovunque nel mondo. E se è naturale che il figlio di cittadini sia egli stesso cittadino ovunque nasca, chi non si trova in questa condizione, se desidera diventare cittadino italiano, deve chiederlo e dare dimostrazione di possedere i requisiti previsti dalla legge. La cittadinanza, in sostanza, consegue all’accertamento di una condizione che è innanzitutto morale, che presuppone la condivisione di valori civili e spirituali, quelli che individuano l’identità di un popolo come si è formata nella sua storia lungo i secoli, le sue tradizioni. Questo significa la Patria Italiana.

Sta in questo la differenza tra le forze in campo, tra chi ritiene la cittadinanza un dato formale eppure parla di diritti e di civiltà e chi sostiene, invece, che la cittadinanza è un privilegio, come nell’antica Roma, dove poter dire civis romanus sum riempiva di orgoglio ed attestava la condivisione di un’appartenenza ad un ordinamento e ad una storia. I romani che avevano “nel loro archetipo l’idea dell’unità nella diversità”, hanno praticato grande apertura sociale ed integrazione nella quale la concessione della cittadinanza “sta nel fatto di arricchire la comunità di persone degne di farne parte” (Valditara). In coerenza con questi principi, laddove la concessione della cittadinanza riguardasse gruppi di stranieri “doveva fondarsi sul consenso dei cittadini”, in assenza di un diritto soggettivo dei singoli alla cittadinanza. Cittadinanza concepita “nell’interesse di Roma”, per cui si procede all’espulsione dello straniero ed alla revoca della cittadinanza a chi avesse dimostrato di non meritarla.

Non a caso oggi i difensori del cosiddetto ius soli, che secondo Costantino Mortati, al di fuori del caso degli stati che “tendono ad aumentare anche artificiosamente il numero dei cittadini … conduce a conseguenze aberranti”, sono gli eredi di una tradizione politico ideologica che non ha radici nella storia unitaria. Per dirla con Emilio Gentile, lo storico, sono “italiani senza padri”. Ius soli, cui ipocritamente si aggiunge l’aggettivo “temperato”, così come lo ius culturae, per dire che in alcuni casi può bastare la frequentazione di un qualche ciclo scolastico. Un periodo che Giovanni Sartori riteneva del tutto insufficiente a formare un “nuovo italiano”, che non crea automaticamente identificazione.

La legge vigente sulla cittadinanza è fondata essenzialmente sul cosiddetto ius sanguinis, nel senso che è italiano chi nasce da almeno un genitore italiano. Un criterio che, come ha scritto Fausto Cuocolo, “mira a garantire una maggiore coesione all’elemento popolo, il che rende questo criterio astrattamente preferibile”. Soprattutto “quando vuole salvaguardarsi l’omogeneità nazionale esistente”. Tuttavia un bambino nato sul territorio italiano da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza al raggiungimento del diciottesimo anno, purché sino a quel momento abbia risieduto nel Paese “legalmente e ininterrottamente”. Una normativa senza dubbio ragionevole, equilibrata. Si chiede la cittadinanza al raggiungimento della maggiore età, consapevoli del senso di una scelta.

La proposta di modifiche all’esame del Senato prevede una semplificazione dei criteri di concessione della cittadinanza per i bambini, figli di genitori stranieri, nati o cresciuti in Italia. Infatti un bambino nato in Italia ne acquista la cittadinanza se uno dei genitori vi risiede legalmente da almeno 5 anni “o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”. Altra ipotesi. “Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età che, ai sensi della normativa vigente, ha frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana”. Dove è evidente che il frequentare corsi “idonei al conseguimento” non è la stessa cosa che “conseguire”. Norma che si presta ad evidenti aggiramenti, considerata la facilità con la quale si ottengono attestazioni compiacenti. Anche perché il disegno di legge, quando ha voluto, ha previsto come “necessaria la conclusione del corso” (di istruzione primaria) o “il conseguimento di una qualifica professionale” per lo straniero “che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età”.

Ma non è tutto qui. Occorre, infatti, valutare gli effetti della normativa che si vorrebbe approvare anche alla luce di una situazione che non è di normalità, ma di emergenza legata ai continui sbarchi sulle nostre coste di clandestini e di profughi, un’ondata migratoria mai vista, perché organizzata. Non profughi che a gruppi di qualche decina fuggono dal loro paese a causa di una guerra o di difficili condizioni economiche, come nel caso di carestie, ma gruppi di centinaia e migliaia, reclutati, trasportati via terra, alloggiati in attesa dell’imbarco, d’intesa spesso con organizzazioni malavitose alcune delle quali li attendono per farne schiavi nelle campagne meridionali o per avviare le donne alla prostituzione. Organizzazioni che ricattano i familiari rimasti in patria. Una forma moderna di tratta degli schiavi. Un tempo i mercanti di uomini razziavano con violenza giovani soprattutto nei villaggi dell’Africa atlantica, oggi li “convincono” a spendere tutte le risorse della famiglia, migliaia di euro o dollari (ma dove li avranno mai se con quelle somme si possono avviare proficuamente attività produttive?) per finire nei ghetti, nelle periferie delle grandi città o nelle campagne.

Ecco perché la proposta scalda gli animi.