La riforma delle Province architettata da Graziano Delrio quando era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, è un disastro. A suo tempo, annunciando la grande presa in giro, disse parole allarmanti. Riconobbe che sarebbero costate anche più di prima ma era “strategico”. Aspre critiche si levarono anche dal partito di Delrio. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e renziano antemarcia disse apertamente che la riforma Delrio delle province è “confusa e un po’ sbilenca”. A cose fatte, questa è anche l’opinione di Salvatore Sfrecola, che tratta “Il caso delle province” in questo articolo pubblicato anche sul suo blog, Un Sogno Italiano.
La verità è che le province non spariranno mai. Quella riforma faceva acqua da tutte le parti, scritta da chi non conosce i problemi della gestione amministrativa e finanziaria dello Stato, come accade ed è accaduto per tante altre iniziative legislative con le quali il Governo e il Parlamento hanno pensato di risolvere i problemi sulla base di scelte ideologiche o, più spesso, di preconcetti.
Quando non si è scelta la strada di rinviare la risoluzione dei problemi, ad esempio in materia di pensioni, sulle quali sono state fatte manovre a fini di contenimento della spesa utilizzando strumenti che si sapeva sarebbero stati dichiarati incostituzionali (come nel caso del blocco dell’adeguamento al costo della vita). Governo e Parlamento hanno scelto una strada che sapevano sarebbe stata interrotta dall’intervento della Consulta. Hanno preferito far fronte a un’esigenza immediata, di cassa, ma con l’effetto di trasferire l’onere sul governi successivi.
Tornando alle Province, un siffatto modo di affrontare i problemi tanto gravi, come sono quelli del funzionamento dello Stato, anche quando documentato come fa l’articolo di Rizzo, non è produttivo di effetti positivi sul dibattito delle idee a livello politico e tecnico e sulle scelte degli italiani quando saranno chiamati alle urne.
La verità è che la riforma delle province è un pasticcio grande, conseguenza della legge Delrio, con cui Graziano Delrio ha voluto anticipare la riforma costituzionale con la quale si intendeva abolirle, contando sulla sua approvazione con la sicumera che ha caratterizzato l’esperienza di governo di Matteo Renzi, svuotando non il ruolo, come avrebbe potuto fare, ma i bilanci di questi enti, mantenendo integre le loro attribuzioni tra le quali, fondamentali, quelle sulla manutenzione delle strade e degli istituti scolastici.
Va detto innanzitutto che se le Province sono previste dall’art. 114 della Costituzione come articolazione della Repubblica, il loro numero e le loro attribuzioni sono riservate al legislatore ordinario il quale avrebbe potuto da tempo intervenire. Invece, le attribuzioni non sono state modificate e il numero è cresciuto nel tempo per soddisfare ambizioni locali, di partiti e di lobby.
In una visione più ampia e più realistica della vicenda si dovrebbe riflettere sul ruolo di questi enti che, si dimentica molto spesso, costituiscono la struttura sovracomunale più vera, più autentica, meglio rispondente alla storia, alle tradizioni, alla cultura delle nostre popolazioni in quanto identificano territori che hanno una comunanza di interessi economici e ambientali vicini alle esigenze delle popolazioni.
Non a caso, all’indomani della costituzione del Regno d’Italia, nel 1862, il ministro dell’interno Marco Minghetti si fece promotore di una iniziativa legislativa, che poi non ebbe corso per le difficoltà di quel momento storico, diretta alla costituzione di “consorzi di province” che avrebbero dovuto svolgere quel ruolo che prima indicavo di rappresentanza degli interessi di vasti ambiti territoriali accomunati da storia e da esigenze attuali dall’economia all’ambiente.
Lo sarebbero state molto più delle Regioni, che l’esperienza insegna essere inutilmente costose (basti pensare agli “Uffici di rappresentanza” a Roma e a Bruxelles) le quali appaiono delle sovrastrutture artificiosamente costruite su ambiti territoriali molto diversificati. Basti pensare alla Regione Lazio, che comprende territori culturalmente di pertinenza della Toscana, come la provincia di Viterbo, o dell’Abruzzo, come la provincia di Rieti, per non dire di vaste aree più meridionali che gravitano sulla Campania.
In sostanza chi mette in evidenza le disfunzioni dell’attuale sistema amministrativo italiano decentrato a livello provinciale denuncia un fatto vero, che sarebbe stato agevole superare attraverso una ragionevole riorganizzazione degli enti e degli uffici sul territorio accorpando Prefetture e Questure, i comandi dei Carabinieri e della Guardia di finanza o dei vigili del fuoco o le sovrintendenze, al di là del numero delle province.
La verità è che le Province sono aumentate di numero per interessi locali che l’Esecutivo e il Parlamento non sono stati capaci di contrastare. In questo contesto è necessario che il Governo dello Stato sia messo in mano a personalità di elevata competenza e autorevolezza, in modo che si giunga ad un riordinamento dell’amministrazione secondo esigenze attuali, funzionali all’interesse pubblico e non a quello di consorterie locali, politiche o diversamente qualificabili.
In sostanza è una debolezza della politica che viene denunciata attraverso la giuste segnalazioni di tutti coloro i quali si sono occupati della pubblica amministrazione nella sua articolazione centrale e territoriale. Perché non è dubbio che distonie esistano anche a livello centrale con duplicazioni di competenze che rendono incerta l’azione dei Governi e difficile la vita e i cittadini e delle imprese.
E qui torniamo ad una mia vecchia segnalazione, che prima di ogni altra cosa i Governi dovrebbero provvedere alla riforma della pubblica amministrazione. Io credo da sempre, infatti, che un politico serio, nel momento in cui assume la responsabilità di un settore dell’amministrazione pubblica, e questo vale per lo Stato come per le Regioni, le province e i comuni come prima cosa debba verificare se, in relazione all’indirizzo politico che intende imprimere alla sua azione di governo secondo le indicazioni del corpo elettorale, le leggi che disciplinano la attribuzioni e l’apparato siano funzionali a quegli obiettivi.
Perché, se ciò non è, si deve rapidamente provvedere all’adeguamento delle norme sulle attribuzioni, che potrebbero essere in parte superate o diversamente gestibili, e sul personale, ad esempio quanto alle professionalità richieste che spesso non sono quelle del tempo lontano nel quale sono state disegnate le funzioni dell’ente.