Magistratura da ordine a potere dello Stato. Da Berlusconi all’Ilva

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 3 Dicembre 2013 - 06:10 OLTRE 6 MESI FA
Magistratura da ordine a potere dello Stato. Da Berlusconi all'Ilva

Il giudice Antonio Esposito legge la condanna di Silvio Berlusconi

ROMA – Va di moda da qualche tempo scrivere di “chi comanda e dove. A Torino, a Roma, libri con profluvio di nomi che, anche se sono i soli acquirenti del libro e le loro famiglie già assicurano una buona riuscita del volume.

Diverso il caso del libro di Giulio Sapelli “Chi comanda in Italia” (Guerini e Associati, 2013), che tratta poteri forti in economia in tutto il mondo. Nel presentarlo, il prof. Sapelli ha parlato anche di giustizia, criticando la funzione di supplenza della magistratura che da ordine si è trasformata in un potere dello Stato.

Un po’ quello che ripete da sempre Silvio Berlusconi e ripetono gli uomini e le donne della sua parte.

Diciamo che c’è un po’ di confusione e più di qualche approssimazione, in dottrina e di fatto.

Non c’è dubbio che l’esercizio della giurisdizione sia espressione di un potere dello Stato quello, appunto, di “dire il diritto”, iusdicere, così assicurando la corretta applicazione delle leggi che fa il Parlamento. Che poi l’esercizio della giurisdizione sia affidato ad un corpus di funzionari dello Stato dotati di specifica preparazione ed assistiti da indipendenza non modifica la posizione istituzionale dell’esercizio della funzione giudicante.

L’accusa mossa ai giudici di debordare, di svolgere in alcune circostanze un’azione di supplenza del potere politico, ricorrente da più tempo, è cosa diversa, è la prova che il bilanciamento dei poteri di fatto non è attuato, che il potere legislativo è carente sotto il profilo della predisposizione delle norme di diritto sostanziale e processuale attraverso le quali si realizza, da un lato, la determinazione delle norme, civili e penali, e, dall’altro, l’esercizio della giurisdizione, cioè l’affermazione del diritto nel caso concreto. D’altra parte il potere amministrativo manca gravemente nell’esercizio della funzione sua propria.

Cominciamo col dire che i giudici applicano le leggi che fa il Parlamento. Le applica interpretandole (la distinzione tra applicazione ed interpretazione, cara a taluni è una immane sciocchezza) con un impegno professionale che è tanto più complesso quanto più oscura è la norma. Una oscurità determinata da vari fattori. In primo luogo dall’uso di parole di equivoco significato giuridico, magari perché oggetto di diversi e variegati comandi legislativi, per non dire della ricorrente esterofilia per cui un po’ per l’endemico provincialismo italico, un po’ per confondere le idee al “popolo sovrano” vengono introdotti termini stranieri dai molteplici significati. Un esempio per tutti, la parola mobbing non viene usata nelle normative dei paesi anglosassoni.

Le difficoltà di interpretazione portano con sé inevitabilmente varietà di indirizzi giurisprudenziali. È normale in ogni ordinamento. Ma se la cosa assume aspetti patologici ci sono due modalità di intervento. Del legislatore con norma di interpretazione autentica o del sistema giudiziario attraverso l’intervento nomofilattico del giudice della giurisdizione. Ovunque le Corti supreme mettono ordine in presenza di pronunce eccessivamente contrastanti.

In assenza di questo tipo di interventi è evidente che il cittadino rimane sconcertato.

Nel complesso, poi, è evidente che la responsabilità del buon funzionamento della giustizia è conseguenza del sistema normativo nel suo complesso, come accennato. Le regole le detta il Parlamento. Se non le fa o le fa in modo da non assicurare l’effetto voluto non è colpa del giudice.

Ancora, l’ipotesi della “supplenza”. Lo si dice in conseguenza del cattivo uso che dei rispettivi poteri fanno il potere legislativo e quello amministrativo. Nel senso che se sembra che il giudice si sostituisce al Parlamento o al Governo vuol dire che c’è un vuoto grave. A volte è solo effetto della sovrapposizione di comportamenti diversi o dell’assenza di comportamenti.

Un esempio, l’ILVA di Taranto quando qualche bella testa ha accusato la magistratura di fare “politica industriale” decidendo la chiusura di alcuni altoforni ritenuti inquinanti. Ancora una volta qualcuno non aveva fatto il proprio dovere. Perché se un impianto industriale inquina è dovere del giudice, a tutela della salute, fermarlo. Ma spetta all’amministrazione disporre gli interventi necessari per ripristinare le condizioni di legge per il corretto esercizio dell’attività industriale.

Troppe volte la politica è intervenuta a gamba tesa a fronte di azioni giudiziarie scomode con grave danno per la salute. L’acqua è inquinata? Niente problemi, alziamo il limite della tollerabilità di un fattore inquinante.

A Taranto il giudice sequestra il prodotto finito a garanzia degli interventi risanatori? Fa “politica industriale”. Nessuno pensa di criticare chi ha omesso di intervenire a far rispettare le regole.

Il fatto è che in Italia è frequente la trascuratezza del legislatore e dell’amministratore sicché il giudice, messo alle strette, deve intervenire individuando un reato anche dove sarebbe possibile una precisazione normativa o una iniziativa governativa.

A volte non si interviene per non far emergere errori od omissioni e si attende che un altro potere assuma qualche iniziativa. Se sono latitanti Parlamento e Governo nessun problema. Ma se è il giudice ad intervenire, soprattutto in materia di sicurezza e salute ecco che deborda.

Non accadrebbe se ognuno facesse il proprio dovere, tempestivamente ed appropriatamente