Tra le cause dei problemi che stringono sempre di più l’Italia, l’inadeguatezza classe politica è un nervo scoperto e un tema costante delle polemiche sui giornali e nella opinione pubblica.
Si può dire, con amarezza, che
viviamo da anni nell’era della mediocrità. Non solo però si deve parlare di mediocrità della classe politica.
Un ruolo importante e ahinoi negativo lo ha giocato anche la classe amministrativa nel senso più ampio,
che spesso, anche ai livelli più elevati, conta soggetti di scarsa professionalità ed esperienza, il più delle volte non vincitori di prove selettive ma nominati dai politici di turno.
Perché tutto questo? Perché da molti anni la classe politica al governo non viene selezionata sulla base di esperienze maturate in precedenti responsabilità di gestione della cosa pubblica a livello di comuni, province o regioni.
Un tempo, infatti, non si diventava ministro senza esperienza di sottosegretario, né di sottosegretario se non erano state svolte funzioni di parlamentare per una o due legislature. Così, ugualmente, non si entrava a Palazzo Madama o Montecitorio se non si era stati almeno consigliere comunale, in sostanza senza una esperienza politico amministrativa.
Salvo rare eccezioni questo cursus honorum era necessario per accedere ai piani alti del Palazzo, avendo acquisito, attraverso esperienze significative, la capacità di percepire in quali termini l’indirizzo politico elettorale si trasforma in concreti atti di gestione, quelli che sono di competenza dell’alta burocrazia statale, che predispone atti normativi, generali e specifici, necessari per la realizzazione dei programmi di governo.
Questi politici sapevano dialogare con i loro collaboratori, con quella variegata classe di Grand Commis fatta dei Capi di Gabinetto e degli uffici legislativi e di dirigenti generali, in numero limitato, come esige una adeguata selezione. Consiglieri di Stato, della Corte dei conti e Avvocati dello Stato, indipendenti per definizione, anche nei confronti dell’Amministrazione presso la quale coadiuvavano il ministro, sapevano dialogare con i vertici dell’Amministrazione, dirigenti sempre di elevata professionalità.
Questo scenario è cambiato radicalmente sotto entrambi i versanti. Si diventa ministro o sottosegretario per meriti diversi da quelli che possono derivare dall’esperienza politica, mentre i più stretti collaboratori vengono anch’essi selezionati in ragione della loro fedeltà cieca, non alle istituzioni ma alla persona o al partito. È lontano il tempo in cui un Vincenzo Caianiello, all’epoca Consigliere di Stato (sarebbe divenuto Presidente della Corte costituzionale) lasciava la direzione dell’Ufficio legislativo del Ministro Nicolazzi per dissensi tecnici sul disegno di legge sui suoli.
Ugualmente l’Amministrazione è stata letteralmente demolita, attraverso una sistematica proliferazione di uffici ai quali vengono preposti molto spesso giovani virgulti di partito o reclutati nelle segreterie politiche e in aziende private, con scarsa o nulla preparazione sulle procedure amministrative, che spesso si rapportano con arroganza nei confronti della struttura, con la conseguenza di determinare un clima che non favorisce la collaborazione necessaria all’interno di un ufficio.
La nuova realtà era ben presente a politici di lungo corso come Giulio Andreotti, sei volte Presidente del Consiglio dei ministri dopo aver ricoperto l’incarico di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e di ministro delle finanze, dell’industria, della difesa, sempre accompagnato in questi incarichi da collaboratori tecnici di elevata professionalità.
E poiché siamo andati indietro nel tempo voglio ricordare una vicenda che mi fu raccontata, molti anni dopo, da Ferdinando Carbone, uno dei più illustri Grand Commis che abbia avuto l’Italia del dopoguerra, una carriera iniziata da giovanissimo in Magistratura ordinaria, poi Avvocato dello Stato, Consigliere di Stato, infine Presidente della Corte dei conti per sedici anni. Nel frattempo aveva svolto le funzioni di Capo di Gabinetto di Luigi Einaudi al Ministero del bilancio e di Segretario Generale della Presidenza della Repubblica con lo stesso Einaudi.
La vicenda è proprio quella della istituzione del Ministero del bilancio, un dicastero creato apposta per Luigi Einaudi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia. Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio (siamo al IV Governo dello statista trentino, 31 maggio 1947 – 23 maggio 1948), aveva fortemente voluto che Einaudi entrasse a far parte dell’Esecutivo formato dalla coalizione DC – PLI – PSLI – PRI. L’indicazione fu quella di Ministro delle finanze e del tesoro, impegno notevole che il Professore, come tutti chiamavano il grande economista, capì ben presto non adeguato all’impegno di risanamento del Paese distrutto dalla guerra che aveva assunto con il suo ingresso nel governo. Così dal 6 giugno 1947 divenne Vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio, cessando in pari data, dalla carica di ministro delle finanze e tesoro.
Il Ministero del bilancio fu istituito con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 4 giugno 1947, n. 407, che contestualmente sopprimeva il Ministero delle finanze e tesoro e costituiva due distinti dicasteri, delle Finanze, guidato da Giuseppe Pella, e del Tesoro, cui fu preposto l’economista Gustavo Del Vecchio.
Ebbene, pochi ricordano la vicenda complessa del passaggio di Einaudi dal Ministero delle finanze e del tesoro, alla Vice Presidenza del Consiglio e della istituzione del Ministero del bilancio.
Einaudi voleva uno strumento duttile di controllo della spesa pubblica senza oneri di gestione, quelli che alle finanze richiedevano la firma di molte decine di atti al giorno (all’epoca gli atti di spesa, anche i più modesti, ed i provvedimenti amministrativi erano tutti firmati dal ministro). Della sua idea si diede carico Carbone, suo Capo di Gabinetto, che ne parlava con De Gasperi che voleva conoscere come in concreto Einaudi intendesse definire il suo ruolo. L’idea doveva essere messa a punto dal Consigliere Carbone che vi lavorava alacremente cercando di costruire un sistema normativo del tutto nuovo secondo i desiderata di Einaudi, il Professeore. Sicché un giorno, pressato da De Gasperi che chiedeva cosa volesse Einaudi, Carbone rispose “la luna nel pozzo”. E De Gasperi non ebbe dubbi che la si dovesse dare all’economista piemontese del quale, aggiunse, “non possiamo fare a meno”.
Così fu varato il decreto legislativo che consentì al grande economista, che lungo decine di anni aveva insegnato ed indicato, dalla cattedra e dalle colonne di La Stampa e del Corriere della Sera come si gestisce l’economia e lo Stato, di favorire in breve tempo la ripresa dell’economia italiana nel rispetto dei principi della libera concorrenza e della libertà di intrapresa.
Una vicenda che dimostra la capacità politica di un grande statista, De Gasperi, e di uno straordinario economista, Einaudi, insieme al livello professionale di un alto magistrato, Carbone, che univa alla conoscenza del diritto e dell’Amministrazione quella sensibilità politica che, unita all’indipendenza di giudizio, dovrebbe sempre caratterizzare i collaboratori dei ministri.