Occidente ed Islam: integrazione, la tragedia degli equivoci

Occidente ed Islam: integrazione, la tragedia degli equivoci
Occidente ed Islam: integrazione, la tragedia degli equivoci

ROMA – Integrazione è la parola più ricorrente quando si parla di come affrontare i problemi posti dai migranti che sbarcano sulle nostre coste. E, ancora, in occasione dei tragici eventi terroristici che hanno insanguinando l’Europa e non solo. Integrazione, che dovrebbe garantire una pacifica convivenza tra cittadini e immigrati. Per concludere che gli episodi di violenza che la cronaca ci propone con sempre maggiore frequenza, siano i casi di accoltellamento, come quello recente alla stazione di Milano, siano i più gravi attentati di Parigi, Berlino, Londra o Manchester, sarebbero un po’ colpa degli stati europei, nel senso che non sarebbero stati capaci di favorire l’integrazione.

Questa, come si legge nel Vocabolario della lingua italiana Treccani (vol. II, 910), si realizza attraverso l’“assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in una organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapp. a segregazione)… integrazione dei lavoratori stranieri, degli immigrati nella (o alla, con la) popolazione locale”.

Insomma, integrazione significa condivisione, da parte dei migranti, di valori che sono propri della comunità che accoglie, valori che normalmente sono individuati nella carta costituzionale dello stato, tra i principi fondamentali, i diritti di libertà ed i doveri di solidarietà, la pari dignità sociale, l’uguaglianza davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come si legge nell’art. 3 della nostra Costituzione. Valori civili, etici, giuridici che coloro i quali entrano in un paese devono necessariamente rispettare. Ovunque avviene così.

Nell’antica Roma, che nasce – è bene ricordare – con il riconoscimento da parte di Romolo del diritto di asilo, erano bene accette persone provenienti da ogni angolo del mondo allora conosciuto, senza distinzione di razza e di fede. Si richiedeva “esclusivamente” il rispetto delle leggi e la condivisione della missione storica di Roma, cioè della identità romana (G. Valditara, l’immigrazione ai tempi dell’antica Roma: una questione di attualità, Rubettino, 2014). Tanto che nella storia del regno prima, della repubblica e, infine, dell’impero, giungono ai vertice delle magistrature personalità che avevano avuto i natali lontano e spesso fuori d’Italia, come Livio Andronico, uno schiavo manomesso di lingua e cultura greca, Nevio, campano, come Petronio. Orazio, il grande poeta, era figlio di uno schiavo liberato, Livio veniva da Padova. Nel II secolo dopo Cristo gli imperatori sono quasi tutti nati fuori Roma e lontano dall’Italia.

Dionigi di Alicarnasso scrive che coloro che sono degni di essere cittadini romani sono i benvenuti ed ottengono la residenza e la cittadinanza. Anche per le comunità o gruppi valeva la stessa regola. Per cui leggiamo in Livio, padovano, come si è ricordato, che loda la scelta di rispedire a casa un’intera comunità i cui membri si erano comportati in dispregio delle regole di Roma. La quale praticava sul serio l’accoglienza, anche con riferimento alle divinità dei gruppi etnici presenti, come gli egizi ai quali avevano consentito la costruzione dei templi di Iside e Osiride.

Il rispetto delle regole è la pretesa minima. Vieni a casa mia devi rispettare le mie leggi e le mie abitudini. Sei ospite ti devi comportare con rispetto e buona educazione. Non sei cristiano? Non devi oltraggiare la statua della Madonna o murare una sua edicola, come io rispetto la tua moschea e mai mi permetterei di entrarvi con le scarpe.

L’autorità pubblica non si fa rispettare nelle nostre città, tra l’altro con danno grave all’immagine di un paese la cui economia trae notevoli risorse dal turismo intorno al quale ruota un indotto di proporzioni gigantesche. Si pensi solo all’artigianato e alle produzioni enogastronomiche. Infatti la scelta di una vacanza in Italia non è evidentemente legata alla presenza del sole o del mare e neppure alle bellezze paesaggistiche che pure sono la meraviglia del “bel Paese”, così chiamato proprio per il suo clima. Sole, mare e monti si trovano anche altrove in Europa. Quel che rende unica l’Italia è il suo straordinario patrimonio storico artistico assolutamente ineguagliabile e noto in tutto il mondo. L’Italia, infatti, è anche il paese della cultura e, in genere, dell’arte, della letteratura e della poesia. Per non dire degli storici, dei filosofi e dei giuristi. E della musica, come dimostra l’alta affluenza di stranieri nei nostri conservatori, per studiare e perfezionarsi. È noto che le nostre orchestre, le nostre compagnie teatrali, i nostri cantanti girano il mondo ed i direttori d’orchestra che salgono sul podio dei maggiori teatri in tutti i continenti sono spesso italiani.

È evidente che il disagio sociale indotto dalle migliaia di migranti privi di lavoro genera insicurezza, la quale nuoce al turismo in misura rilevante, anche perché c’è sempre la televisione o il giornale da qualche parte del mondo, soprattutto nei paesi nostri concorrenti, che s’impegna a segnalare episodi piccoli e grandi che gettano discredito sull’Italia, dipinta come il paese delle mafie, della cattiva gestione dei servizi, degli scioperi, dei ristoratori o dei baristi dai conti salati. Per non dire della ricorrente lamentela, giustificatissima, della mancanza di servizi per i turisti, a cominciare dai bagni e proprio a Roma, che li aveva inventati (i vespasiani dall’imperatore che ne promosse la diffusione), per cui migliaia di turisti che giornalmente visitano la città, devono passare per un bar, per un ristorante per poter accedere a una toilette. E il più delle volte si sentono dire che non sono praticabili perché in corso di ristrutturazione.

E veniamo alla ricorrente affermazione che sarebbe nostra la colpa del disagio dei migranti, perché non sappiamo integrarli, ogni volta che l’azione terroristica a Parigi come Nizza, a Bruxelles, a Berlino, a Manchester è stata posta in essere da cittadini di fede islamica di seconda o di terza generazione con regolare passaporto. E qui occorre un approfondimento serio. Stupisce, infatti, o forse non stupisce, che i soloni del politicamente corretto, i quali imperversano su giornali e in televisione per insegnare la verità al volgo, i soliti Severgnini o Friedman non capiscono ciò che sta accadendo e perché.

È evidente, infatti, che un cittadino di seconda o terza generazione che massacra con bombe o accoltella per strada suoi coetanei che avrà o avrebbe potuto incontrare per strada o al bar è un esaltato criminale. Evidentemente manca un adeguato approfondimento che non si fa per non apparire fuori dal coro del politicamente corretto.

Infatti è facile constatare che mentre i padri sono venuti in Occidente per esigenze economiche o per sfuggire alle guerre e, pur mantenendo il giusto legame con la cultura della terra di origine, si sono in qualche modo dovuti adattare alle usanze europee, anche per trovare una occupazione, i figli, che dovrebbero sentirsi francesi, belgi, inglesi o tedeschi (un attentatore “belga” era addirittura un funzionario pubblico) soffrono dell’isolamento nel quale queste comunità si sono collocate mantenendo usi e costumi del paese di origine non condivisi nella società che li ospita. Come la condizione della donna, che pretendono di tenere fuori dei rapporti di lavoro, in piscine separate, in luoghi di divertimento separati, e conservano abitudini tribali, come l’infibulazione, con loro tribunali che decidono sulle questioni di famiglia al di fuori delle regole dello Stato.

In questi contesti i giovani maturano rabbia verso i paesi che li ospitano per cui non si sentono come i loro coetanei. E covano una rabbia che ha molte origini ma al fondo nasce dalla incapacità di queste persone di integrarsi, di accettare le regole e le usanze delle comunità che li ospitano. Qualcuno ricorderà la ragazze musulmane che non hanno partecipato al momento di silenzio per i morti di Parigi. In questo contesto la religione, che ingloba regole di vita quotidiana, è uno strumento di ribellione. Richiama alla purezza dei costumi descritta dal Corano, laddove gli occidentali sono corrotti, perché consentono alle loro donne di andare a capo scoperto, di mostrare i capelli che notoriamente sono un elemento di attrazione per i maschi, che scoprono le gambe con le gonne corte, che spesso hanno le spalle nude e scollature che, non di rado, fanno intravedere o immaginare quelle rotondità che da sempre a noi maschi occidentali piacciono tanto, perché scandiscono la differenza tra i sessi.

E se i vari Severgnini e gli altri che in televisione parlano di integrazione culturale e religiosa, di dialogo interculturale ed interreligioso, non comprendono queste cose è evidente che c’è un vizio di fondo, una sottovalutazione di fatti che vengono da lontano. La storia, infatti, ci dice che l’aggressività del mondo musulmano nei confronti dell’Occidente inizia con il settimo secolo d.C., quando con la violenza sono state convertite le popolazioni delle regioni costiere del Mediterraneo che erano cristiane. Poi sono state occupate la Spagna e la Grecia e le truppe ottomane sono arrivate sotto le mura di Vienna, la capitale austriaca nel cuore dell’Europa, sconfitte in due battaglie a lungo dall’esito incerto. Se avesse perduto l’esercito imperiale avrebbe perduto l’Occidente, per sempre.

A chi insiste nel prevedere conseguenze positive nel dialogo interculturale interreligioso va detto senza mezzi termini che dialogo esige un piano di parità, un confronto che presuppone dei dialoganti consapevolezza della propria cultura e della propria identità. E se certamente i musulmani hanno consapevolezza della loro identità culturale ed hanno una straordinaria capacità di aggregazione sotto il profilo religioso e delle usanze che sono strettamente legate al proprio credo, gli occidentali, quelli che dovrebbero dialogare con loro, non hanno la consapevolezza della identità di europei, hanno rifiutato il riferimento alle radici cristiane nella bozza di Costituzione europea preparato dalla Convenzione che nei primi anni 2000 ha discusso a lungo su come restituire slancio all’Europa anche ricordando le glorie della storia, la cultura che fa di un francese un francese, di un italiano un italiano, che hanno una storia comune, che dalle sponde del mar Egeo e dalle rive del Tevere si è dipanata lungo i secoli nel Continente. Se non c’è consapevolezza della propria identità il dialogo porta necessariamente alla sottomissione è squilibrato e non giova al mantenimento della pace.

Ed a proposito di confronto religioso e di rispetto della identità del paese che ospita, sembra sia stato trascurato un segnale significativo di una mentalità separatista e aggressiva, quando a Roma fu costruita la grande moschea. Si voleva che avesse un minareto più alto della cupola di San Pietro. Una sfida evidente nella capitale della Cristianità. Considerato che nei paesi arabi non è consentito costruire una chiesa cristiana e curarne la manutenzione. Ed essere cristiano significa non poter raggiungere alcune posizioni elevate nelle istituzioni civili e militari, come in Turchia.

 

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