Prescrizione. Oltre Penati: i politici rinuncino sempre

Prescrizione. Oltre Penati: i politici rinuncino sempre
Filippo Penati. Non è andato in aula a rinunciare alla prescrizione e il suo ricorso in Casazione è arrivato troppo tardi

Salvatore Sfrecola ha scritto questo articolo per Un Sogno Italiano

Filippo Penati ex Presidente della Provincia di Milano, inquisito nell’ambito dell’inchiesta per il cosiddetto “sistema Sesto” ci ha provato [anche se c’è chi ha detto: troppo tardi], ma la Corte di Cassazione ha giudicato inammissibile il suo ricorso contro la sentenza che aveva accertato l’intervenuta prescrizione allo scopo di ottenere la piena assoluzione.

Non conosciamo le motivazioni della sentenza della Sesta sezione penale della Cassazione, che ci riserviamo di commentare più avanti, ma l’occasione ci spinge a riflettere sull’art. 157 del codice penale che al comma sette afferma che “la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dell’imputato”. La norma è conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale 31 maggio 1990, n. 275, che ha affermato l’illegittimità della precedente formulazione per contrasto con il principio di ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 della Costituzione nella parte, in cui non prevedeva che la prescrizione del reato possa essere rinunciata dall’imputato.

La questione di legittimità costituzionale degli artt. 157 del codice penale e 152, secondo comma, del codice di procedura penale l’aveva sollevata il Pretore di Macerata, Sezione distaccata di Civitanova Marche, con ordinanza 31 luglio 1989, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27, secondo comma, della Costituzione su istanza espressa dell’imputato.

Nell’occasione la Corte costituzionale ha cambiato la precedente giurisprudenza (sentenza 16 dicembre 1971 n. 202) la quale, nel riconoscere l’esistenza di un fondamentale interesse dell’imputato ad ottenere una sentenza che riconosca o l’insussistenza del reato o che egli non lo ha commesso, aveva, tuttavia, ritenuto prevalente l’interesse generale a non più perseguire reati in ordine ai quali il lungo tempo decorso ha fatto cessare l’allarme sociale, e spesso reso difficile l’acquisizione delle fonti di prova.

Nel 1990, dunque, le tesi del Pretore hanno convinto i giudici delle leggi sulla base della enunciata linea evolutiva del sistema giuridico la quale suggeriva che i tempi fossero maturi per una svolta costituzionale.

Alla luce di questa pronuncia, che riconosce un evidente interesse giuridicamente qualificato dell’imputato che si ritiene innocente a vedersi restituito l’onore, la cronaca giudiziaria è ricca di esempi opposti. Nel senso che la maggior parte degli imputati, di fronte ad una sentenza di prescrizione, si guarda bene dal rinunciare alla prescrizione. Tra questi a noi interessa, in particolare, sottolineare questo comportamento quando a valersi della prescrizione sono i politici, coloro ai quali “sono affidate funzioni pubbliche” i quali, secondo l’art. 54 della Costituzione, “hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.

Espressione che, al di là del dibattito dottrinale sul dovere di fedeltà alla Repubblica, identifica quello che la gente ritiene un dovere “necessario” per chi è investito, per concorso (dipendenti civili e militari, magistrati, ecc.) o per voto popolare (parlamentari, amministratori locali), di una pubblica funzione, cioè di una attività nell’esercizio della quale c’è, in qualche modo, la “spendita” del nome dell’Istituzione pubblica.

Questo dovere, quando non adempiuto, contribuisce in modo determinante ad allontanare i cittadini dalle istituzione e, in fin dei conti, a giustificare, quando il fenomeno assume determinate dimensioni, l’elusione dei doveri pubblici anche da parte del cittadino, a cominciare dal rispetto delle regole generali e fiscali.

C’è bisogno, dunque, di un ritorno alla moralità pubblica di cui questo Paese ha estremo, urgente bisogno.

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