ROMA – Matteo Renzi ha annunciato che proporrà al prossimo Consiglio dei ministri la nomina di Raffaele Cantone a capo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Lo ha fatto in diretta tv dallo studio di Che tempo che fa.
Che dire? Nulla della persona, certamente di valore, una vita a combattere la criminalità organizzata in Campania. Ce la metterà tutta certamente. E gli auguriamo, e ci auguriamo come italiani amanti della legalità, pieno successo. Ma se la scelta del Governo rivela un approccio penalistico è sbagliata, dopo che il Parlamento aveva corretto con la legge n. 190 del 2012, come ha osservato la Commissione Europea nella sua relazione dei primi di febbraio, la tradizionale scelta prevalentemente repressiva.
In magistratura nel 1991, Sostituto procuratore presso il Tribunale di Napoli, poi nella Direzione distrettuale antimafia napoletana, Cantone nel 2007 passa all’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione. Il 18 giugno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta, lo nomina componente della task force per l’elaborazione di proposte in tema di lotta alla criminalità organizzata.
Un’esperienza importante con indagini sul clan camorristico dei Casalesi, sulle infiltrazioni dei clan casertani all’estero, dalla Scozia alla Germania, alla Romania ed all’Ungheria sulle tracce di esponenti di spicco del clan Schiavone.
Il suo taglio professionale e la sua cultura giuridica sono penalistici. Le sue pubblicazioni scientifiche e gli articoli pubblicati sul quotidiano Il Mattino riguardano espressamente il penale, dai reati fallimentari al giusto processo. I Gattopardi, una sorta di intervista con il giornalista dell’Espresso Gianluca Di Feo, segnalano una mafia in giacca e cravatta, che si muove tra collusioni e connivenze. Nell’aprile del 2012, per la Collana “Frecce” di Mondadori, Cantone, con Operazione Penelope, si chiede “perché la lotta alla criminalità organizzata e al malaffare rischia di non finire mai”. Una tela, quella che nel poema omerico, Penelope tesse di giorno e disfa di notte in attesa di Ulisse.
Il tema sfiora la corruzione sempre sotto il profilo penale, dell’approccio repressivo. Quello che la Commissione Europea ha visto superato con la nuova legge anticorruzione, la 190 del 2012, che – scrive- “ha riequilibrato la strategia rafforzandone l’aspetto preventivo e potenziando la responsabilità (accountability) dei pubblici ufficiali”. Quello che ha guidato nel settembre 2013 l’autorità nazionale anticorruzione CIVIT (Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche) ad approvare il piano nazionale anticorruzione predisposto per tre anni dal dipartimento della funzione pubblica, un piano d’azione, basato sulla valutazione del rischio di corruzione, che “si concentra principalmente sulle misure preventive e di trasparenza all’interno della pubblica amministrazione, includendo anche misure volte a facilitare l’individuazione di pratiche corruttive”.
Vincerà la scommessa Raffaele Cantone? Riuscirà dove hanno fallito coloro che si sono occupati di anticorruzione dopo la legge n. 3 del 2003 che aveva istituito l’“Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione”? Un funzionario “alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio”, una evidente anomalia.
La notò immediatamente Marco Travaglio. Il primo Alto Commissario fu Gianfranco Tatozzi, Consigliere di Corte d’Appello, scelto da Berlusconi (si diceva fosse amico dell’avv. Cesare Previti). Dopo di lui, che lascia l’incarico allo scadere di un biennio denunciando una non meglio specificata “scarsa sensibilità” verso la lotta alla corruzione, è la volta dei prefetti, Bruno Ferrante, Achille Serra e Vincenzo Grimaldi, nomi di prestigio che non lasceranno tracce evidenti.
Nel 2008 il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti sopprime l’Alto commissario. “Costa troppo”, sembra sia stata la motivazione. La funzione passa con una struttura minore al Ministro per la semplificazione che si affretta a ridimensionare il “costo” della corruzione. Quei 60 miliardi segnalati dalla Corte dei conti per lui sono troppi. È un feroce critico della corruzione “percepita”. I processi sono pochi, falcidiati dalla prescrizione cui nessuno rinuncia, e poche le condanne. Per Brunetta è questa la corruzione, niente di più.
Incombe un obbligo internazionale, l’ottemperanza all’articolo 6 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, che impone un’autorità nazionale anticorruzione. Nasce l’Anac, “Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”.
Adesso arriva Cantone. Speriamo vada a spulciare al di là del codice penale per arrivare a quegli sprechi, decine di miliardi, che siamo convinti da sempre, sono frutto di corruzione. Dagli appalti di lavori e forniture agli accordi bonari, ai collaudi, una giungla di procedure dove si insinuano compiacenze illecite.