Nelle prime ore di domenica 25 luglio 1943 avvenne quello che fino a poche ore prima era impensabile: un voto a larghissima maggioranza del Gran Consiglio del Fascismo su un ordine del giorno quello di Dino Grandi, che chiedeva l’“immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al governo, al parlamento, alle Corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie costituzionali”. Per Grandi “il popolo italiano fu tradito da Mussolini il giorno in cui l’Italia ha cominciato a germanizzare. È quest’uomo che ci conduce sulla scia di Hitler; egli abbandonò la via di una leale e sincera collaborazione con l’Inghilterra, e ci ha ingolfati in una guerra che è contro l’onore, gli interessi e i sentimenti del popolo italiano”.
Lasciando la sala del Gran Consiglio, verso le tre del mattino, Benito Mussolini, definì quella votazione “la crisi del regime”.
Mussolini, secondo testimonianze univoche, non reagì. “Il Duce è stanco”, scrive uno dei protagonisti della seduta Alberto De Stefani, economista, ministro, autore della riforma dell’amministrazione, in Gran Consiglio ultima seduta, da pochi giorni nelle librerie con una prefazione di Francesco Perfetti (Le Lettere, Firenze) .
Scrive Alberto De Stefani: Mussolini “s’abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo abbandono”. Tutti notano questo atteggiamento rinunciatario. E ne scriveranno suggerendo varie interpretazioni. Per i più è come se avesse la consapevolezza di essere arrivato al capolinea. Che le manchevolezze dell’azione militare, che denuncia ripetutamente e impietosamente nelle quasi due ore del suo intervento, sono a lui addebitabili, quale responsabile della conduzione delle operazioni sul campo e per essere stato per due decenni ministro della guerra senza rinnovare soprattutto l’Esercito, entrato nel conflitto con il fucile ’91 (che significa 1891!), l’armamento della prima guerra mondiale! E sì che proprio Grandi, reduce dall’esperienza di ambasciatore a Londra, aveva ripetutamente segnalato al Duce l’elevato livello degli armamenti inglesi e lo spirito combattivo di quel popolo che Mussolini insisteva a svilire, fino a definire quello di Sua Maestà l’ultimo esercito del mondo, al punto che Winston Churchill, annunciando alla Camera dei comuni la fine delle ostilità con l’Italia, avrebbe ironicamente affermato che “l’ultimo esercito del mondo ha battuto il penultimo”.
Non c’è solo la conduzione delle operazioni militari sullo sfondo della riunione del Gran Consiglio, organo del Partito Fascista costituzionalizzato nel 1928 con funzioni consultive del Governo, ignorato da anni (non si riuniva dal 1939) anche al momento dell’entrata in guerra. Infatti De Stefani scrive che “le prerogative del Gran Consiglio gli erano state sottratte dal suo stesso fondatore”.
L’ordine del giorno Grandi ha un taglio politico-istituzionale inequivocabile, a cominciare da quell’invito pressante al ritorno alla legalità costituzionale che il presidente della Camera, una delle personalità più autorevoli e popolari del regime, al punto da essere indicato come successore di Mussolini, e che era stato il motivo dominante della sua azione politica nell’ambito del regime fascista, anche da Ministro degli esteri e Guardasigilli. Grandi oppone – ricorda De Stefani – alla “mistica della cieca obbedienza” la “mistica della legalità che è presidio spirituale e istituzionale della giustizia tra gli uomini e della loro eguaglianza giuridica”.
Pertanto, chiede l’abolizione del regime totalitario, il ritorno alla Costituzione e la restituzione di tutti i diritti parlamentari e delle prerogative della Corona. Il presidente della Camera non dà tregua al Duce: “Voi credete ancora di avere la devozione del popolo italiano? La perdeste il giorno che consegnaste l’Italia alla Germania. Vi credete un soldato: lasciatevi dire che l’Italia fu rovinata il giorno in cui vi metteste i galloni di maresciallo. Vi sono già centinaia di migliaia di madri che dicono: Mussolini ha assassinato mio figlio”.
Anche De Stefani nel suo diario si rivolge direttamente a Mussolini. “Che cosa vi domandiamo? Il ritorno al rispetto delle leggi, alla loro libera applicazione … Il contrasto tra il partito e lo Stato come è da noi concepito è sempre più profondo ed esso è la causa della scissione tra il fascismo e la Nazione, per cui essa considera il fascismo una struttura parassitaria e fonte di arbitrio”.
Con Grandi voteranno “sì” in 19 (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Marinelli, Pareschi e Rossoni). Sette i “no” degli irriducibili (Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanova). Suardo si astiene. Farinacci avrebbe votato il proprio ordine del giorno se Mussolini non avesse chiuso la discussione.
Gli storici s’interrogano ancora, cercando di comprendere come e da chi sia stato preparato l’evento, ed anche sul rilievo costituzionale delle scelte del Sovrano, in quel pomeriggio del 25 luglio, a Villa Savoia, quando il Re accetta le dimissioni, spontanee, va sottolineato, del Duce e conferisce l’incarico di formare il governo al maresciallo Pietro Badoglio. Anzi l’aveva già conferito.
Per tutta la giornata venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto. Solo alle 22,45 la radio trasmette il comunicato, stringatissimo, come d’uso: “Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”.
Fu una forzatura costituzionale? Per qualcuno fu addirittura un colpo di stato, preparato e condotto in porto da Vittorio Emanuele III. Accuratamente preparato, ormai non ci sono dubbi, probabilmente da due o tre anni, dalla Corona alla quale i “congiurati” intendevano restituire non soltanto il Comando delle Forze Armate ma anche le prerogative statutarie che il Regime aveva compresso sistematicamente.
Per il Re la sua azione è legittimata dall’ordinamento statutario. Egli, in tal modo, “tende a ricondurre l’esperienza fascista all’interno del quadro costituzionale albertino, negando che il Ventennio abbia potuto annullarlo completamente” (P. Colombo, Storia costituzionale della monarchia italiana, Laterza, Bari, 2001, 113)
L’antecedente più immediato è l’udienza del Re al presidente della Camera il 4 giugno 1943 (il 22 luglio Grandi avrebbe incontrato prima Galeazzo Ciano, a casa di Giuseppe Bottai, poi lo stesso Mussolini). Nell’occasione Vittorio Emanuele, da sempre ligio alle regole costituzionali, suggerì a Grandi di provocare un voto del Parlamento o del Gran Consiglio per lui base legale necessaria per deporre Mussolini. Ciò che solo il Re poteva fare una volta ripristinati i poteri statutari. Sintomatico il rinvio all’art. 5 dello Statuto Albertino, la Carta costituzionale del Regno.
La scelta in questo senso è chiarissima nel documento Grandi. Essa è inglobata nell’ordine del giorno di un organo costituzionale, il Gran Consiglio. Nel colloquio con Grandi Vittorio Emanuele aveva affermato: “Sono un Re costituzionale e so perfettamente che il Parlamento non è in grado di funzionare: ma, ciò nonostante, una qualche indicazione mi occorre che mi venga da organi dello Stato e del Paese, in modo inequivoco e certo” (Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime, Mursia, Milano, 1972, 349).
Con la conseguenza che alla luce di quella votazione va valutata anche la decisione del Re di incaricare di formare il Governo il maresciallo Badoglio, senza che fosse sentito il Gran Consiglio, come prevedeva la legge istitutiva. Procedura che ha fatto dire a taluno che Vittorio Emanuele III avrebbe compiuto un vero e proprio colpo di stato. Conclusione affrettata, sostenuta da giuristi antifascisti, comunque antimonarchici, nonostante in regime di statuto flessibile la caduta, per votazione dell’organo supremo del regime, degli istituti tipici di esso dovesse travolgere, nel quadro di un’emergenza costituzionale, il Fascismo e le leggi che lo sostenevano.
Non c’è dubbio, infatti, che le modifiche apportate con legislazione ordinaria all’impianto statutario trovavano comunque un limite nell’essenza stessa della monarchia costituzionale. Come nel caso della successione al trono sul quale il Gran Consiglio si sarebbe dovuto pronunciare, in contrasto con la legge salica, richiamata dall’art. 2 dello Statuto del Regno.
Chi fu il motore della “congiura”? Una iniziativa che parte da lontano, si è detto, immaginata in vari modi d’intesa con il Re che, secondo testimonianze non equivoche, da tempo meditava di allontanare il “collega” Primo Maresciallo dell’Impero, con il quale non sopportava di condividere quel grado che, per definizione, doveva essere unico, rendeva visibile quella “diarchia” che ledeva le prerogative costituzionali del Re ed il quadro istituzionale della Monarchia parlamentare.
La legge 24 dicembre 1925, n. 2263, modifica l’impianto statutario secondo il quale “al Re solo appartiene il potere esecutivo” (art. 5) stabilendo che “il potere esecutivo è esercitato dal Re per mezzo del suo Governo”, introduce la figura del “primo ministro” e gli attribuisce la qualifica di “capo del governo”. Una norma dalla quale i giuristi fascisti giungono alla conclusione che “il governo non comprende il re e corrisponde piuttosto all’organo tramite il quale la Corona esercita la funzione esecutiva; essere capo dell’esecutivo, dunque, non significa essere capo del governo” (P. Colombo, Storia costituzionale, cit. 97). “Si assiste, in sostanza, ad un rovesciamento della logica della controfirma ministeriale: qui sembra essere il re a “controfirmare” gli atti dei ministri, piuttosto che viceversa” (ivi).
A proposito del grado di Primo Maresciallo dell’Impero, poi, è noto che, nel contrasto tra il Re ed il Duce, che intendeva fregiarsene, fu richiesto il parere del prof. Santi Romano, presidente del Consiglio di Stato, il quale giunse alla conclusione che con la duplice attribuzione non sarebbe stata messa in discussione la prerogativa regia di capo dell’esercito. Vittorio Emanuele non apprezzerà molto il parere dell’insigne giurista, tanto da dire: “I professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere”.
Non è dubbio, infatti, che Vittorio Emanuele III, cui certo in alcuni momenti non ha giovato dinanzi alla storia il suo formalismo costituzionale (“La Camera e il Senato sono i miei occhi e le mie orecchie”, era solito dire), mal sopportava l’invadenza del “cugino” dittatore, soprattutto in quella fase del ventennio nella quale il Duce aveva preso posizioni antinglesi che il Re non gradiva e che non a caso compaiono nell’invettiva di Grandi che denuncia l’abbandono della “via di una leale e sincera collaborazione con l’Inghilterra”. Una collaborazione che Vittorio Emanuele aveva patrocinato ai tempi della prima guerra mondiale.
Alla resa dei conti il Duce sembra rassegnato ad uscire di scena. Troppe le testimonianze in questo senso. Come dimostra l’esperienza della Repubblica Sociale Italiana alla quale fu forzato, anche se pensò fosse una scelta idonea ad evitare l’occupazione militare dell’Italia del Nord con le conseguenze tragiche che erano state sperimentate qua e là per l’Europa.
I fascismo cade all’alba del 25 luglio, senza spargimenti di sangue, al termine di una drammatica ma ordinata votazione in cui i gerarchi rimettevano il potere nelle mani della Corona. Mussolini non si oppone, lascia fare. Perché fu così imbelle? Commenta 70 anni dopo Sergio Romano sul Corriere della Sera: “Se i buchi nella barca non li avesse fatti lui, verrebbe voglia di concludere che, fra i molti protagonisti del 25 luglio, Mussolini non fu il peggiore”.
La resa dei conti era nell’aria, dunque, e nella realtà delle cose, nell’andamento disastroso delle operazioni militari culminate nei giorni precedenti nell’invasione della Sicilia, là dove l’Esercito avrebbe dovuto fermare gli alleati “su quella linea che i marinai chiamano bagnasciuga”, come aveva detto in un discorso del 24 giugno, confondendo la linea di “fior d’acqua”, la parte di superficie della carena della nave limitata superiormente dal piano di galleggiamento, con la “battigia”, che si bagna e si asciuga per effetto del moto ondoso.
L’aveva intuito il pomeriggio del 24 donna Rachele. Ha come un presentimento, consiglia al marito, che si appresta ad andare a Palazzo Venezia, di far arrestare tutti i gerarchi.
All’alba del 25 luglio e nelle ore successive anche lei si sarebbe resa conto del tradizionale, italico abbandono del perdente. A cominciare dai “fedelissimi”, come i Moschettieri del Duce, dileguatisi alla chetichella, in borghese, da Palazzo Venezia. Ugualmente gli ardori di Enzo Galbiati, comandante della Milizia, che aveva minacciato di mobilitare le truppe “fedeli”, si smorzano rapidamente. Rimase al suo posto, immobile. Mentre Carabinieri ed Esercito tenevano le posizioni prestabilite, concordate dalla Stato maggiore d’intesa con il Sovrano che avrebbe dovuto affrontare ancora ben altre, impegnative prove per salvare il salvabile.
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