Vittorio Veneto 100 anni fa: riscatto italiano e vittoria finale dopo Caporetto

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 25 Ottobre 2018 - 06:46 OLTRE 6 MESI FA
Vittorio Veneto 100 anni fa: riscatto italiano e vittoria finale dopo Caporetto. Nella foto Ansa: Redipuglia, il sacrario

Vittorio Veneto 100 anni fa: riscatto italiano e vittoria finale dopo Caporetto. Nella foto Ansa: il Sacrario di Redipuglia, monumento ai 600 mila soldati italiani morti nella Grande guerra

Vittorio Veneto, all’alba del 24 ottobre di cento anni fa ebbe inizio l’offensiva decisiva dell’Esercito italiano sul Monte Grappa e sul Piave, che portò, 10 giorni dopo, il 4 novembre 1918, alla vittoria sul nemico austro ungarico tedesco e alla fine della guerra 1915-18, la prima guerra mondiale. Fu  “una Caporetto alla rovescia”, ha scritto Salvatore Sfrecola in questo articolo pubblicato sulla Verità in edicola il 24 ottobre. 

La definizione di “Caporetto alla rovescia” è citata da Chistopher Seton Watson nella sua “Storia d’Italia dal 1870 al 1925”. Watson a sua volta citava una frase di Armando Diaz in una lettera alla moglie del 30 ottobre 1918, quando il Generale comincia ad assaporare il successo delle armi italiane in una azione decisiva per la vittoria finale. Subentrato a Luigi Cadorna, giusto un anno prima, Diaz coglie l’effetto della sua capacità di direzione e coordinamento del grande esercito che aveva profondamente rinnovato nell’armamento, nella organizzazione e nei quadri e in un nuovo rapporto con la truppa stressata dai lunghi anni di trincea. 

La ricostruzione storica di Salvatore Sfrecola parte dal giugno del ’18, quando gli austriaci, bloccati sul Piave, ripresero l’iniziativa con un attacco nel Trentino nella speranza che il nostro Comando vi facesse affluire truppe sottratte al fronte del Piave.

L’offensiva si sviluppa fra il 14 e il 15 giugno con un massiccio bombardamento accompagnato da lancio di gas su tutto il fronte, soprattutto sul Grappa dove gli austriaci riescono a conquistare alcune importanti posizioni, ciò che convince Franz Conrad von Hötzendorf che la vittoria sia vicina. Per lui gli italiani sono ormai “appesi con le sole mani a un balcone”, tanto che una spinta li farebbe precipitare. Ma non aveva a disposizione quelle truppe tedesche che un anno prima avevano fatto la differenza a Caporetto.

Dura sei giorni l’offensiva “della fame”, delle truppe approvvigionate con derrate alimentari sottratte ai viennesi. Le 58 divisioni austriache cedono alle 56 italiane e alleate. E il nuovo Capo di Stato maggiore, Arthur Arz von Straussemburg, subentrato a Conrad, ordina la ritirata abbandonando sul terreno tra morti e feriti quasi 100.000 uomini e 25.000 prigionieri. “Per la prima volta – scrive il Generale Erich Ludendorff – avemmo la sensazione della nostra sconfitta”.

È tutto un rincorrersi di eventi verso la conclusione della Grande Guerra. Il 26 settembre 1918 gli alleati sfondano la “linea Hindemburg”, mettendo in crisi lo schieramento tedesco sul fronte francese, il 29 i bulgari capitolano sotto l’incalzare dell’armata d’oriente, il 3 ottobre gli ungheresi proclamano l’indipendenza. L’indomani la Germania chiede di trattare sulla base di quanto proposto l’anno prima dal Presidente U.S.A. Woodrow Wilson nei suoi famosi “Quattordici punti” secondo il principio dell’autodecisione dei popoli e del loro diritto all’indipendenza nazionale.

Intanto, verso metà ottobre, il nostro Comando Supremo ha pronto il piano della grande offensiva destinata a svilupparsi attraverso il Piave in direzione di Vittorio Veneto. Alle forze già in linea Diaz aggiunge due piccole armate miste, una italo inglese, al comando di lord Frederik Cavan, e una italo francese, al comando del corso Jaean-César Graziani. Vuole coinvolgere gli alleati che lo accusavano di essere troppo cauto. Si attende che diminuisca la portata della piena autunnale del Piave. Per non dare l’impressione di restare fermo Diaz ordina al Generale Gaetano Giardino di attaccare sul Montegrappa dove convergono molte riserve austriache.

L’offensiva italiana inizia alle 3 del mattino del 24 ottobre con un martellamento di artiglieria lungo tutto il fronte. Sul Grappa è un inferno. Gli austriaci respingono sanguinosamente i nostri assalti sul Piave. Occorrono tre giorni di lotta per creare una testa di ponte. All’ordine del contrattacco i reggimenti cechi, croati, polacchi, ungheresi gettano le armi e l’esercito austriaco crolla di schianto. Il generale Enrico Caviglia traghetta oltre il fiume a Susegana la sua VIII armata e lancia le divisioni di cavalleria in direzione di Vittorio Veneto, raggiunta la sera stessa. Minacciata di aggiramento la VI armata austriaca abbandona il Montegrappa e da quel momento la ritirata si tramuta in quella rotta per cui, come si legge nel Bollettino della Vittoria, l’esercito austriaco perde “quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi”, lasciando “nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni”.

Il 30 ottobre le truppe nemiche in fuga sono inseguite dalle armate italiane che il 3 novembre raggiungono Udine e Trento. È la resa e il 4, alle ore 12, il Generale Diaz dirama il Bollettino della Vittoria.

L’epilogo della guerra non sarebbe sufficientemente inquadrato nell’evoluzione delle operazioni militari all’indomani di Caporetto e dello sbandamento che ne seguì se non riconoscessimo l’importanza della resistenza sulla linea del Piave decisa a Peschiera del Garda l’8 novembre 1917 quando Re Vittorio Emanuele III l’impose ai governi ed agli stati maggiori di Francia e Inghilterra che solo tre giorni prima (il 6), nella Conferenza di Rapallo, avevano insistito perché il nuovo fronte fosse stabilito al Mincio o al Tagliamento. Una scelta che avrebbe potuto consentire all’esercito austriaco di dilagare nella pianura padana. A Peschiera il Re, l’unico che dopo Caporetto non aveva mai perso “il suo sangue freddo”, come ha scritto Indro Montanelli, ribaltò il giudizio negativo sulla nostra capacità di resistenza che francesi ed inglesi avevano manifestato a Rapallo, dove si erano riuniti in conferenza preliminare “con esclusione dei nostri”, ricorda Antonio Gatti, Colonnello di Stato Maggiore nel suo “Caporetto Diario di Guerra”, che “attesero così, alla porta, come servitori, che gli altri decidessero”. “I nostri” erano il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, il Ministro degli esteri, Sidney Sonnino, il Ministro della Guerra, Vittorio Alfieri e il Sottocapo di Stato Maggiore Carlo Porro.

Vittorio Emanuele convocò, dunque, tutti a Peschiera.

Pioveva quella mattina nebbiosa sul gran lago quando il Re giunse, pallido, teso, come ci raccontano le cronache. Sembrò sfinito al soldato di guardia alla casetta sede del Comando di battaglione, un tempo scuola elementare. Ma con grandissima energia e competenza convinse i vertici politici e militari delle potenze alleate che gli italiani avrebbero resistito sul Piave, presenti, per la Gran Bretagna, il primo ministro David Lloyd Gorge, con i generali Sir William Robertson e Henry Hugue Wilson; per la Francia il primo ministro Paul Pailevé ed il ministro Franklin Bouillon, accompagnati dal generale Ferdinand Foch e dall’Ambasciatore Camille Barrére. Parlò due ore, solo lui, in inglese e in francese, con estrema decisione riscuotendo l’ammirazione di Lloyd George, che ne ha lasciato un dettagliato resoconto.

Nell’occasione il Presidente del Consiglio Orlando aveva preparato un proclama da lanciare alla Nazione. Cominciava così: “Una immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re”. Non gli piacque. Lo stile di Re Vittorio era sempre essenziale, asciutto, mai retorico. E scrisse: “Italiani, Cittadini e Soldati! Siate un esercito solo”.

La resistenza sul Piave porterà alla vittoria, non solo delle armi italiane ma dell’intera coalizione.