Giuseppe Turani ha pubblicato questo articolo anche su Uomini & Business col titolo: “Due o tre cose su Repubblica”.
Qualcuno, con molta intelligenza, ha provato a tracciare una specie di scala dei tempi e degli eventi della storia di Repubblica. La fine dell’Ulivo avrebbe determinato l’uscita del fondatore, Eugenio Scalfari, e la fine di Berlusconi avrebbe provocato l’uscita di Ezio Mauro. Questa ricostruzione è suggestiva, ma forse è anche un po’ meccanica.
Non ho alcuna notizia di prima mano, ma penso che entrambi i direttori si siano dimessi perché erano stanchi di fare quel lavoro e probabilmente anche perché consideravano un po’ finito il proprio tempo e la propria missione.
Nel caso poi di Scalfari è intervenuto probabilmente anche un altro elemento. Con il fondatore alla direzione, il peso del nuovo proprietario (Carlo De Benedetti) sul giornale era praticamente zero. Può essere quindi che ci sia stata qualche pressione tale da convincere Scalfari a lasciare e di non prolungare oltre la convivenza abbastanza anomala fra un direttore padrone assoluto e una proprietà a cui restava solo il piacere di leggere in edicola il giornale che aveva comprato, con centinaia di miliardi (di lire).
Il risultato è stato un buon compromesso. Scalfari ha accettato di lasciare il ponte di comando, ma ha ottenuto di fatto di nominare il suo successore (la proprietà aveva in mente altri candidati). In più ha ottenuto di continuare con l’editoriale domenicale e altri articoli, in assoluta e insindacabile indipendenza. Per sempre.
Mauro aveva un compito considerato allora quasi impossibile: dimostrare che era possibile una “Repubblica” senza Scalfari alla direzione. E c’è riuscito, pagando probabilmente un prezzo molto alto. Mentre Scalfari era sempre alla caccia di talenti e giocava sulle contraddizioni, quello di Mauro è diventato un giornale molto compatto, chiuso, ostinato nelle proprie scelte. E dentro il quale la fedeltà e la condivisione della linea facevano premio su tutto. Forse questa era l’unica strada per gestire un giornale pieno di “firme” abituate a fare un po’ di testa propria. Non lo sappiamo perché altre non ne sono state tentate.
Adesso si apre l’era di Mario Calabresi, che a Repubblica ha già lavorato e che conosce tutti. E probabilmente comincia davvero un’altra storia. O forse no. Mi spiego meglio.
Calabresi è stato a Repubblica, ma non è un prodotto della scuola di Repubblica. Ha fatto altre esperienze e ha altre motivazioni. Se il compito di Mauro era quello di dimostrare che si poteva fare una Repubblica senza Scalfari, quello di Calabresi è di dimostrare che Repubblica può essere comunque un giornale con un suo senso, anche se si allontana dalla sua storia.
Con una precisazione. Repubblica è sempre stata un giornale diverso perché ha sempre avuto un nemico da abbattere: Craxi negli anni di Scalfari, Berlusconi in quelli di Mauro (semplificando). Non si sa se sia possibile fare una Repubblica senza nemici aperti e dichiarati.
A volte sembra di capire che il nemico di turno potrebbe essere Renzi, ma la cosa non ha molto senso. Non è nell’interesse dell’editore e nemmeno del giornale. Il bacino degli anti-Renzi è poca cosa e sembra destinato a ridursi via via che il tempo passa. Non si può pensare che i soggetti di riferimento di Repubblica siano Civati o Fassina.
Allora cosa resta?
Una scelta coraggiosa ci sarebbe. Oggi la politica italiana è inquinata da trasmissioni tv indecenti e da una vasta area politica qualunquista (dai pentastellati alla Lega). Se si volesse fare una Repubblica coraggiosa e di progresso, con il profumo un po’ dei vecchi tempi, questa sarebbe la strada.
Ma la mia impressione è che non si farà. Si cercherà di fare un “bel” giornale, informato e preciso, destinato a durare nei secoli, ma niente di più.
E spero molto di sbagliarmi.
P.S. = Per gli amanti del genere ripubblico qui sotto una mia recensione al libro di Pansa su Repubblica, in cui si raccontano un po’ delle vecchie storie di piazza Indipendenza.
Pansa e Repubblica
Confesso che mi sono avvicinato al libro di Giampaolo Pansa “La Repubblica di Barbapapà”, Rizzoli editore, con una certa preoccupazione. E questo per due ragioni: Pansa è un cronista implacabile e preciso (il migliore che oggi ci sia in Italia) e è noto per essere uno che non le manda a dire. Poiché abbiamo passato tutti e due circa quarant’anni della nostra vita nel gruppo Espresso-Repubblica, temevo che di trovarvi aneddoti magari un po’ approssimati.
Invece no. Probabilmente alcuni dei miei ex-colleghi si risentiranno o faranno finta di non aver visto il libro di Pansa (che da tempo non gode di buona stampa da quelle parti), ma nel volume, per quanto ricordo io, non c’è niente che non risponda esattamente a quanto è accaduto. Il libro, e questo va detto, non è solo una storia di “Repubblica”, ma è anche un po’ l’autobiografia di Pansa stesso e un pezzo di storia italiana dagli anni Settanta in avanti.
Certo, è inutile nasconderlo, al centro del libro c’è un’accusa pesante, molto pesante. Secondo Pansa “Repubblica” si sarebbe trasformata in una sorta di giornale-caserma, dominato da un pensiero unico, che non ammette alcuna variante. Paradossalmente, l’unica firma che può dissentire, ogni tanto, è quella del Fondatore, cioè di Eugenio Scalfari. E questo, purtroppo, risponde al vero.
All’osservazione di Pansa si potrebbe obiettare che questa è un’evoluzione naturale: Francesco Alberoni spiegherebbe che quando dai “movimenti” (quale era “Repubblica” all’inizio) si passa a qualcosa di più organizzato le maglie si stringono.
Però, non si tratta solo di questo. Effettivamente oggi “Repubblica” appare come una sorta di partito leninista, ma senza comitato centrale e senza congressi. Il perché è abbastanza evidente e, forse, inevitabile.
All’inizio “Repubblica” aveva due missioni straordinarie. La prima (che apparteneva a Scalfari, ma in cui ci coinvolse tutti) era quella di fare un giornale di grande successo, partendo da zero, quando sembrava che questo non fosse possibile. La seconda era quella di trascinare il popolo comunista nell’area “occidentale”, del mercato, della socialdemocrazia, insomma, da questa parte (vecchio sogno che risale a Ugo La Malfa e a quelli del “Mondo”). Tutte e due le missioni sono state portate a termine. E probabilmente con più successo di quello che sarebbe stato pensabile quando “Repubblica” partì in piazza Indipendenza, con il suo piccolo formato (che suscitò persino molta ilarità nei giornalini del tempo) e la sua folla di praticanti abusivi, che mettevano piede in un giornale per la prima volta.
Oggi “Repubblica” non è più quell’avventura. Non sono più i tempi caotici dell’inizio, quando l’elegante Sandro Viola poteva esclamare in riunione, di fronte a qualche inesattezza: “Qui dentro l’unica cosa attendibile sono le mie cravatte”. “Repubblica” è semplicemente un potere in un mondo di poteri. Basti pensare al suo editore, Carlo De Benedetti. Se gli togliete il gruppo editoriale, il suo impero è ben povera cosa (qualche clinica per vecchi, una rivendita di energia, e un’azienda di ricambi per auto, nel complesso una specie di bric-à-brac senza senso alcuno). Il suo potere sulla società italiana e sulla politica deriva solo e esclusivamente da “Repubblica” e dai giornali connessi. Senza di questi sarebbe solo un medio imprenditore un po’ cresciuto, ma dalla vocazione incerta.
E un potere fra i poteri non può permettersi molte sbavature. Deve avere una linea dritta, riconoscibile, fatta rispettare con ferra disciplina.
Altrimenti, caro Giampaolo, forse saremmo ancora lì, tutti e due.