Senator ha pubblicato questo articolo anche su Un sogno italiano col titolo Napolitano: nel discorso di fine anno, bilancio di una presidenza controversa.
Giorgio Napolitano, che si avvia a lasciare il palazzo del Quirinale, riceverà probabilmente in questi giorni il plauso di politici e giornalisti. Ma non è difficile immaginare, secondo un costume tutto italiano, che all’indomani della sua discesa dal Colle molte e pesanti saranno le critiche politiche e istituzionali che lo accompagneranno dalla piazza del Quirinale a via dei Serpenti, a Roma, dove è il suo alloggio privato.
È una riflessione indotta dalla a lettura dei commenti dei “quirinalisti” o di quanti comunque si occupano di vicende politiche e istituzionali i quali per giorni hanno cercato di immaginare cosa avrebbe detto il Capo dello Stato nel suo messaggio di saluto agli italiani, considerato che questa occasione è certamente conclusiva del suo mandato presidenziale.
Naturalmente, finora, prevalevano i toni laudatori tipici di certa piaggeria giornalistica e politica che caratterizza da sempre il rapporto tra molti mezzi di informazione, i politici e le istituzioni. Così non facendo un buon servizio agli italiani che hanno il diritto di conoscere e di capire ciò che avviene nei palazzi dove si assumono decisioni di interesse generale nel rispetto delle regole della Costituzione che identifica un sistema di pesi e contrappesi nel quale si realizza l’equilibrio dei poteri e il buon funzionamento dello Stato.Da questo punto di vista l’esperienza di Giorgio Napolitano farà sicuramente discutere a lungo i commentatori politici ed anche i costituzionalisti perché, come ha detto più d’uno degli osservatori delle questioni della politica, il Presidente ha da tempo abbandonato quella posizione di assoluta terzietà che identifica il suo ruolo nell’ordinamento della Repubblica parlamentare. Nel senso che le decisioni sono passate dal Parlamento al Presidente della Repubblica il quale ha favorito le dimissioni di Berlusconi, affidato il governo a Mario Monti, avendolo previamente nominato Senatore a vita, nominato primo ministro Enrico letta e poi Matteo Renzi.
Tre governi nati fuori dal Parlamento anche se ne hanno ottenuto la fiducia e che, in particolare nel caso del governo attuale, sono rimasti in carica per effetto di continui voti di fiducia che di fatto hanno espropriato le Assemblee legislative comprimendo ogni forma di opposizione.
Siamo in proposito convinti che per molti di coloro che in passato hanno manifestato interesse per una riforma costituzionale in senso presidenziale l’esperienza Napolitano ne ha decretato la impraticabilità. Perché se è vero che il governo deve essere messo in condizioni di maggiore agibilità politico amministrativa, non è dubbio che l’interpretazione che dei propri poteri ha offerto il capo dello Stato in questi anni ha dimostrato il pericolo della concentrazione in un’unica persona di scelte che andrebbero distribuite tra distinte istituzioni dello Stato.In particolare è venuta a mancare l’opera di controllo di legalità che spetta istituzionalmente al presidente della Repubblica sugli atti che, ancorché a contenuto normativo, hanno la forma del decreto presidenziale. Alludo in primo luogo ai decreti legge che previsti, come si esprime la costituzione all’articolo 77, “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, sono stati adottati per questioni che quella necessità ed urgenza non manifestavano, tra l’altro innescando grossi problemi sotto il profilo della legittimità delle nuove norme anche per il loro specifico contenuto.
Quindi non solo norme non sorrette dalla previsione costituzionale ma incongrue, inadeguate, contraddittorie e spesso sbagliate che hanno alimentato un grosso contenzioso che si sta già riversando sulla Corte costituzionale. Il tutto avallato obtorto collo da un Parlamento costretto a votare quei provvedimenti sulla base di mozioni di fiducia.
Fare un elenco dell’attività normativa sbagliata del Governo, con un giudizio che si estende evidentemente al capo dello Stato che quei provvedimenti usciti da Palazzo Chigi ha firmato, sarebbe incongruo perché una ricognizione delle norme incostituzionali o sbagliate richiederebbe molto spazio e una disamina tecnica che poco interessa i lettori.
Ma facciamo due esempi fra tutti, particolarmente significativi. La soppressione dell’istituto della proroga del trattenimento in servizio dei magistrati, accolta senza difficoltà anche dalle associazioni di categoria, ma che non ha previsto un regime transitorio. Con la conseguenza che molti processi per corruzione si chiuderanno con la prescrizione, perché dovranno cambiare i collegi, una circostanza che azzera il processo e ne richiede la ripresa con il nuovo collegio.
Sarebbe bastata una disposizione che avesse fatto concludere il periodo della proroga, ove iniziata. Per non dire che il decreto che contiene quella norma e tante altre già impugnate dinanzi ai tribunali e rinviate alla Corte costituzionale reca un vizio di origine, quello di essere conseguenza di una deliberazione del Consiglio dei Ministri del 24 giugno 2014, richiamata in premessa, che risulta essere stata, come hanno affermato tutti i giornali, oggetto di plurime modifiche richieste proprio dal Quirinale senza che esse siano state convalidate da una nuova deliberazione del Consiglio dei Ministri. Un errore di una banalità sconcertante nel quale non sarebbe incorso neppure uno studente al primo anno del corso di laurea in giurisprudenza.
Quanto poi alle presunte semplificazioni basta ricordare che il cosiddetto decreto “sblocca Italia”, che avrebbe dovuto prevedere una serie di semplificazioni, occupa sulla Gazzetta Ufficiale 289 pagine in un testo fitto fitto. Il dato si commenta da solo.
Ebbene, tutte queste anomalie giuridiche sono state avallate dal capo dello Stato nei confronti del quale il rispetto dovuto per la carica rivestita non può escludere critiche tecniche che, in effetti, trovano conferma delle decisioni dei giudici, in particolare nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale.
Nel suo messaggio Giorgio Napolitano ha difeso le ragioni politiche dell’attività svolta, assumendo di aver operato in condizioni di difficoltà, interpretando il suo ruolo come quello di un sollecitatore di riforme necessarie. Una preoccupazione fondata.
Senza dubbio il capo dello Stato ha il dovere di rappresentare le difficoltà nelle quali si muovono le istituzioni segnalando dov’è richiesto un intervento riformatore. Quel che noi dubitiamo possa fare è la sponsorizzazione di una determinata riforma che, ancorché proveniente dal Governo, costituisce una ipotesi normativa sulla quale si deve esprimere il Parlamento che, fino a prova contraria, nel nostro ordinamento è sovrano in quanto espressione del popolo cui appartiene ai sensi dell’articolo 1 della Costituzione la sovranità.
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