ROMA – Giù le tasse: magari diminuendo la pressione fiscale di un punto come ha promesso Monti, oppure eliminando l’Imu sulla prima casa come si ostina a giurare Berlusconi. La logica dei numeri dice, semplicemente, che è impossibile, al massimo si potrà cercare di scongiurare l’aumento dell’Iva dal 21 al 22% a luglio. E’ il fiscal compact il primo provvedimento che il prossimo governo dovrà sottoscrivere (il 1 marzo): significa che, sebbene le prospettive economiche siano appena più rosee, questo miglioramento avverrà solo a patto che le famose lacrime e sangue continuino a scorrere. Significa, e questo riguarda Bersani e la sinistra, che su pensioni e lavoro non si può tornare indietro, che i tagli non sono finiti e che il ridimensionamento della macchina statale continua.
La logica dei numeri. Va agganciata alla situazione particolare italiana, alla governance europea per la sopravvivenza dell’euro, alla congiuntura mondiale decisiva per capire quando e di quanto riusciremo a crescere. Crescere, appunto: se il denominatore della crescita salisse di un paio di punti percentuali non ci sarebbero problemi. Senza scialare, ma anche senza salassi, potremmo affrontare la ristrutturazione del debito pubblico, il pareggio di bilancio. Nell’anno appena concluso siamo riusciti nel miracolo di non superare il limite massimo del 3% dell’indebitamento quando il Pil è crollato del 2,4%. Per il 2013 ci aspetta un -0,2%: continuiamo a perdere quote di ricchezza invece che aumentarne, siamo lontani praticamente di 2 punti percentuali per poterci permettere promesse, o sconti o manne dal cielo.
Il Fiscal compact può anche essere troppo severo o penalizzare appunto la crescita: ma metterlo in discussione politicamente significa raggiungere un alto compromesso tra forze socialiste (che vorrebbero rinegoziarlo) impossibile da raggiungere in questa era. Dunque, chiunque governerà sarà costretto a firmarlo, altrimenti è fuori dal fondo europeo salva stati Esm che garantisce al posto dell’Italia sulla solvibilità del nostro debito. Lo spread, dagli auspicati 200 punti o addirittura meno (con cui riusciremmo almeno dal 2014 a pagare molto meno degli 89 miliardi attuali per interessi sul debito), schizzerebbe immediatamente ai livelli da incubo dell’anno passato. E allora altro che manovre.
Se l’Italia, come è più che probabile, dirà di sì al Fiscal compact, dovrà mantenere il deficit strutturale entro lo 0,5% del Pil. In più, ogni anno dovrà ridurre di un ventesimo il debito pubblico, per arrivare a un rapporto debito/Pil del 60%. Ora siamo intorno al 120%. Il Fiscal compact prescrive che in 20 anni dobbiamo dimezzare il debito pubblico. Ai prezzi e alle cifre attuali, si tratta di ridurre ogni anno di 45 miliardi di euro il debito. Il prossimo governo vorrà tagliare le tasse? Aumentare la spesa? Non potrà fare nessuna delle due cose. Mentre, se il Pil non dovesse avere un’improvvisa impennata, quella cifra dovrà procurarsela usando la mannaia di cinque manovre finanziarie, una per ogni anno di legislatura.
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