Guglielmo Epifani segretario del Pd: poche ore dopo già pensavano al successore

Pubblicato il 23 Maggio 2013 - 07:56 OLTRE 6 MESI FA
guglielmo epifani

Guglielmo Epifani: appena segretario del Pd, già pensano al successore

Due editoriali sui tormenti che affliggono il Partito Democratico e le sue prospettive, anche se pubblicati in giorni diversi, danno spunti di riflessione anche per il distacco con cui ne scrivono i due autori, in ordine di tempo, Elisabetta Gualmini per la Stampa e Giovanni Belardelli per il Corriere della Sera.

Sempre critica nei confronti dell’establishment dell’ex grande partito, Elisabetta Gualmini individua nel conservatorismo del gruppo dirigente del PD uno dei nodi che lo paralizzano. Un po’ perso in teorie socio politologiche astratte assai è invece Giovanni Belardelli, che non tiene conto di una spiegazione forse più semplice e meno elaborata della sua, ma basata su una universale esperienza che si può estendere a altri partiti (l’ex Msi) e a realtà aziendali, dove sono rari i casi di seconde linee promosse al posto di numero uno.

La spiegazione, nel caso del Pd, è che i vecchi capi del Pci, Togliatti e i suoi, esperti in sopravvivenza dalla polizia fascista come da quella di Stalin, conoscevano bene il rischio di fare crescere seconde linee troppo capaci e il risultato è il pollaio che ha tormentato la discendenza del Pci: autoreferenziali, comunisti solo nella chiusura mentale ma non nella sintonia con le classi più deboli da cui raramente provengono, vetero in tutto, incapaci di capire i tempi di oggi perché sclerotizzati negli schemi dei tempi della guerra fredda.

Ancora sono prigionieri della remora di non vincere perché sapevano che non dovevano vincere. Oggi che lo potrebbero, non sanno porsi in modo competitivo rispetto al mercato dei voti e così lasciano spazio al centro al deja vu delle false promesse di Berlusconi e a sinistra alle false promesse di Beppe Grillo.

Elisabetta Gualmini ha scritto a poche ore dalla “deprimente Assemblea” del Pd di sabato 11 maggio, che

“ha formalmente aperto il Congresso Pd che, a meno di colpi di mano, dovrebbe concludersi in ottobre, secondo le innovative regole scelte nel 2008, con l’elezione di un nuovo leader da parte di tutti i cittadini che abbiano voglia di partecipare”.

“Il neo-segretario, Guglielmo Epifani, dovrebbe essere traghettatore e garante di una breve fase transitoria. Nella quale sarebbe ragionevole attendersi che nuovi attori si facciano ora avanti per contendersi la guida del partito. Corposi indizi lasciano invece intendere che non andrà così, per il prevalere di «istinti di sopravvivenza» che già hanno portato quel partito ben oltre la soglia della auto-dissoluzione”.

Il sospetto di Elisabetta Gualmini è che Guglielmo Epifani

“potrebbe non essere il traghettatore verso un nuovo inizio (che si tratti di far girare la ruota lungo il viale delle rimembranze già solcato da Bersani o di imporre un’agenda alternativa con il metodo Renzi) ma, tutto al contrario, il garante dello status quo. Il rappresentante del «patto di sindacato» che controlla il Pd dal 2010 (Bersani, Letta, Franceschini). E dunque dell’accordo di governo Pd-Pdl, l’ultima spiaggia a cui questo gruppo dirigente è approdato dopo una sconclusionata navigazione a vista. Le parti si sono invertite rispetto ai piani fatti alla vigilia delle elezioni: la «non vittoria» di Bersani ha portato i post-Dc in prima fila; e con quello che ieri era il nemico pubblico numero 1 (Berlusconi) si è oggi dovuta stringere una «alleanza organica» (si sarebbe detto nella Prima Repubblica). Ma il «patto di sindacato» regge.

“Il Congresso Pd potrebbe rivelare sorprese. Il discrimine potrebbe diventare, per l’appunto, quello che separa i difensori dello status quo (patto di sindacato interno, larghe intese) e chi ritiene che vada superato (sotto tutti e due i punti di vista). Che poi vuole anche dire, chi scommette sulla durata dell’attuale governo per più di dieci mesi e su Enrico Letta come bandiera elettorale del Pd anche nelle prossime elezioni, e chi pensa che la nuova bandiera non potrà che essere Renzi, il prima possibile.

Giovanni Belardelli, una settimana dopo:

“Il neosegretario del Pd Guglielmo Epifani è stato eletto da pochi giorni, ma il dibattito interno al suo partito ha in gran parte a che fare con il nome del suo successore. Le cause di questo fatto sono molte, evidentemente, a cominciare da un conflitto tra le varie componenti che la comparsa sulla scena di Matteo Renzi (intersecandosi con il mai sopito confronto tra ex diesse ed ex Margherita) ha solo ulteriormente complicato.

“In passato, più volte gli esponenti del Pd hanno sostenuto che la presenza nelle loro file di molti leader, nessuno dei quali veniva a godere di una posizione di netta supremazia rispetto agli altri, era semmai una risorsa; dunque non qualcosa di meno ma qualcosa di più rispetto a un centrodestra dominato da un unico «padrone», Berlusconi. Ma le cose non stanno evidentemente così, come dimostrano le divisioni che lacerano il partito.

“Il Pd è l’unico, tra i principali partiti italiani, a non fondarsi su un leader, a non fare della leadership l’elemento strutturante e il punto di forza della propria azione politica. La «democrazia del pubblico» appare anzi alla maggioranza dei suoi esponenti qualcosa di destra, di inevitabilmente berlusconiano, e perciò da respingere. In realtà di per sé essa non è né di destra né di sinistra, tanto che sullo stesso terreno si sono dovuti muovere, benché con risultati anche molto diversi, un po’ tutti i partiti della scena politica italiana: da Beppe Grillo a Mario Monti.

“Sullo stesso terreno sembra capacissimo di misurarsi Matteo Renzi, che però — anche per questo — viene percepito come un corpo estraneo da una parte importante del suo partito, nonostante i sondaggi indichino un centrosinistra guidato da Renzi probabilmente vincente sul centrodestra.

“Ma il Pd appare intenzionato a muoversi in una direzione opposta: da sempre diffidente nei confronti del rafforzamento della leadership a livello del sistema politico (si tratti del semipresidenzialismo di tipo francese o del rafforzamento dei poteri del premier sul modello inglese), la maggioranza del suo gruppo dirigente sembra voler portare quella diffidenza fin dentro l’organizzazione interna del partito con la proposta di separare la figura di segretario da quella di candidato premier.

Anche qui Giovanni Berardelli è legato a uno schema che riflette esempi importanti, quello britannico soprattutto, in cui il capo del partito che vince le elezioni diventa anche capo del Governo. Ma non si tratta dell’unico modello esistente. Nel sistema americano, ad esempio, la guida del partito è cosa distinta dalla leadership politica, a tutti i livelli, nazionale e locale. Per Berardelli, invece,

“dividere la leadership non è il modo migliore per rafforzarla. E non è neppure il modo migliore per superare quei conflitti interni, scoperti o nascosti, che rischiano di dilaniare il Partito democratico al di là della momentanea unità trovata attorno al nome del segretario Epifani”.