Tasse, pensioni, Stato sociale: l’Italia tosa il pelo ma non il vizio

di Sergio Carli
Pubblicato il 9 Agosto 2011 - 15:30 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – I trenta giorni che cambiarono il mondo…ma non la testa degli italiani che si apprestano a perdere robuste dosi di “pelo”, ma non il “vizio”. “In un mese è cambiato il mondo” ha detto Giulio Tremonti che erano le otto di sera di un venerdì d’agosto. Lo diceva, Berlusconi al fianco, per giustificare e spiegare perché il governo annunciava all’Italia, e all’Europa e agli Usa, che andava fatto ora e subito quel che il governo, per bocca del presidente del Consiglio alle Camere, aveva escluso di fare tre giorni prima. In realtà il mondo aveva cominciato a cambiare ben prima della seconda decade di luglio 2011. Per tre anni, per almeno tre anni, il governo italiano molto non aveva visto e un po’ aveva fatto finta di non vedere. Non il solo governo al mondo ad essere miope ed esitante, ma in questo caso magra se non inesistente la consolazione del mal comune, mezzo gaudio: nel mondo che cambiava l’Italia, se non quella con i maggiori guai, era di certo tra quelli con i più consolidati e inconfessati “vizi”.

Il mondo aveva cominciato a cambiare almeno un paio di decenni prima, quando aveva cominciato a diventare sempre più “ricco”. Ricco soprattutto di una ricchezza finanziaria di cui, in modo assolutamente e sproporzionatamente ineguale, usufruivano se non tutti quasi. Ricchezza delle merci prodotte, dei beni scambiati? Sì, certo. Ma soprattutto altra e diversa ricchezza: in questi due decenni l’ammontare dei beni “materiali” sul pianeta, insomma il Pil mondiale era sì cresciuto, ma alla fine la ricchezza “materiale” prodotta, lavorata, scambiata e consumata dall’umanità in un anno era un ottavo del valore della ricchezza finanziaria. Insomma l’umanità in questo ventennio ha vissuto, consumato, investito, guadagnato soprattutto “a debito”. Il modello di vita americano e anche quello europeo, pur nella loro diversità alla fine dei due decenni erano entrambi poggiati e appesi su quella enorme piattaforma fatta di finanza grande otto volte il lavoro, il risparmio, la produzione. Poggiati e appesi lì i consumi degli americani che tengono in piedi la sovra produzione cinese, poggiato e appeso lì il Welfare europeo, cioè una certa stabilità del posto di lavoro, i servizi sociali pubblici e garantiti, le pensioni. Poggiate e appese lì anche le grandi ricchezze accumulate da percentuali sempre più piccole della popolazione nelle cui mani si concentrava il valore sempre crescente dell’attività finanziaria. Nel 2007/2008 l’enorme piattaforma si inclina e minaccia di scaricare nel vuoto le banche. E con le banche anche i risparmiatori di mezzo pianeta. I governi occidentali salvano le banche, garantiscono il loro debito assumendoselo: staccano dei giganteschi “pagherò” pari, in teoria, all’inclinazione violenta del sistema finanziario. Il debito del sistema finanziario diventa debito pubblico o sovrano. Negli Usa e in Europa contano e sperano che questa “parola di Stato” raddrizzi la piattaforma e tutto possa ricominciare più o meno come prima.

Non basta, non c’è rapporto possibile: chi controlla una forza pari si e no ad un ottavo della forza cui si oppone non può bilanciare. Nel luglio del 2011 la cosa diventa palese, la piattaforma sta “cappottando”. Era evidente anche prima, ma nel luglio 2011 ciò che incombeva comincia a cadere, anzi a precipitare. Chi garantisce, chi paga in ultima istanza il debito americano? La politica americana si incattivisce e si paralizza: un Obama incerto e spaventato cerca compromessi che non trova. Alla fine gli Usa scelgono di spegnere il motore della spesa pubblica perché i repubblicani vogliono “sterminare” la presidenza Obama e perché il debito Usa appare incontrollabile. Se va loro molto bene, l’economia degli Usa volerà molto basso, sperando di non perdere gli ultimi cento metri di quota: è questo il compromesso tra la Casa Bianca e il Congresso. Non sorprende che i mercati non ci credano e si affollino a scendere dall’aereo. Il messaggio è chiaro: non ci sarà nessuna maxi crescita Usa a trainare il mondo, le Borse ma soprattutto le aziende prendono atto.

In Europa c’è una moneta unica, ma all’ombra dell’euro, ogni Stato fa più o meno come gli pare. E allora chi garantisce, chi è il pagatore di ultima istanza? Dei debiti greci, portoghesi, spagnoli e infine italiani? Bce, Germania e Francia dicono nero su bianco all’Italia che loro pagheranno per un po’, acquistando titoli di Stato italiani che da settimane tutti vendono e svendono, però a precise condizioni. A condizione cioè che l’Italia perda ora e subito molto “pelo”. E cioè le pensioni di anzianità, siamo l’unico paese al mondo dove si va in pensione non secondo anagrafe ma secondo anni di contribuzione previdenziale. Le pensioni alle donne cinque anni prima degli uomini. Le pensioni di reversibilità, quelle al coniuge o ai figli che l’Italia riconosce e paga con i criteri più “larghi” del pianeta. Le pensioni di invalidità, riconosciute e pagate a milioni di invalidi di cui molti veri ma moltissimi finti o comunque “arrotondati” nella loro effettiva invalidità. Un sistema fiscale che strozza chi paga e lascia libero chi evade per 200 miliardi di euro, una mappa fiscale per via di dichiarazione dei redditi bugiarda. Mappa bugiarda dalla quale si accede alla pubblica assistenza: indennità di accompagnamento, sconti sulle tasse universitarie, agevolazioni fiscale a pioggia di cui usufruiscono quelli, milioni, che dichiarano il falso e quelli che appartengono ad una lobby o corporazione potente. Un sistema politico che unisce e somma lo spreco e i privilegi per decine di migliaia di eletti e la consolidata abitudine a finanziare il consenso con denaro pubblico somministrato a tutto il territorio, geografico e sociale. Di “pelo” ce n’è tanto e ora va tosato, in fretta. Interventi sulle pensioni, taglio alle agevolazioni fiscali, aumento dell’Iva: tutto questo più o meno arriverà. Dovrebbe poi arrivare la tosatura alla spesa dei politici per se stessi e soprattutto per il loro modo di fare politica. Dovrebbe…Andrebbe addirittura scritto in Costituzione che non si può governare a debito e a deficit. Ma hanno capito che, con questa regola in Costituzione, non uno dei discorsi e dei programmi sentiti e votati nelle ultime cinque o sei campagne elettorali sarebbero “legittimi”?

Ci si prepara a perdere il pelo, non certo il vizio. Il governo e la destra italiana conservano il vizio di nascondere la verità e di illudere. L’opposizione conserva il vizio del “giù le mani” e del “non si tocca”. La pensione alle donne a 60 anni e le pensioni di anzianità sono state difese da Bossi e dalla Cgil, Lega e Camusso uniti nella lotta. Contro l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013 invece che al 2014 era ieri tutto il Pdl e oggi è tutto ilo Pd, per non parlare di Vendola che questo bilancio in pareggio lo vive come una “trappola del capitale”. I ticket sulla Sanità sono stati istituiti dal governo e subito combattuti e negati dai ministri del governo. Contro l’aumento dell’Iva sono i sindacati dei lavoratori dipendenti e i commercianti…Tutti pronti e convinti a tosare il “pelo”, tutti sempre con il “vizio” di salvare e dichiarare intoccabile il proprio di “pelo”.

E tutti, proprio tutti, con il vizio di imbrogliare le carte. L’Italia dei pessimi trasporti, dei costosissimi e clientelari servizi pubblici, degli ordini professionali e delle corporazioni ha bisogno come dell’aria e del pane delle “liberalizzazioni”. Cioè della concorrenza reale e dello smontaggio di strutture pubbliche e private che servono ad aumentare prezzi e costi e a diminuire l’efficienza. Ma liberalizzare non è sinonimo di privatizzare. Primo e fondamentale perché ci sono servizi e diritti che non è per nulla un buon affare privatizzare: Una Sanità pubblica lottizzata tra partiti e clientele non significa che la Sanità possa e debba diventare privata. Una scuola pubblica annichilita nella sua valenza formativa non significa che la scuola vada privatizzata. Allontanare le mani dei partiti dalle migliaia di società partecipate dalla mano pubblica non significa che ogni servizio possa e debba essere svenduto sulla bancarella del mercato. E poi, quale mercato? Le grandi aziende pubbliche da vendere. A chi, come, a quanto, con quali garanzie per gli standard da offrire a cittadini, consumatori, contribuenti? Si fa finta di non sapere che privatizzare spesso in Italia è equivalso a  regalare aziende a privati che le hanno acquisite di fatto con minimi capitali. Si fa finta di non sapere che lo Stato sociale a cui vanno rifatti i connotati non è una “cosa pubblica” da espropriare a vantaggio dei privati. Il nostro Welfare è storto e insostenibile quanto a costi così come la nostra società economica. C’è la drammatica occasione da non  perdere per raddrizzarlo e sottrarlo alla mano morta di politica e corporazioni, insomma di liberalizzare, più per forza di bilancio che per amor di libertà. Ma il Welfare è anche la specificità del modo di vivere europeo, il segno della sua civiltà. Non è solo la variabile intollerabile che ha attecchito in Italia. Privatizzarlo e basta vuol dire espropriarlo a svantaggio di molti e a vantaggio di pochi. Ancora una volta il “vizio”, il terribile vizio che nessuno si toglie: la destra pronta all’esproprio per odio ideologico e fiutando l’affare, la sinistra in trincea ottusa a proclamare inviolabile la variante corporativa della mano pubblica. Possiamo perdere il pelo, ma, se non aggrediamo il vizio, il mondo cambiato ci cascherà in testa come un tetto sotto cui credevamo di essere al riparo.