ROMA – Ho un ricordo molto netto e sgradevole della fase finale del dibattito televisivo tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi che chiudeva la campagna elettorale del 2006. Berlusconi in conclusione, senza perciò che ci fosse spazio per discuterne, annunciò che, in caso di vittoria, avrebbe abolito l’Ici sulla prima casa.
Erano evidenti la strumentalità delle modalità dell’annuncio e la disinvoltura con la quale si ipotizzava il superamento di una imposta senza valutarne gli effetti o indicare qualche compensazione per i fruitori di quelle risorse, visto che si trattava della principale fonte di finanziamento del bilancio dei comuni.
Consegnai a Romano Prodi, in tarda serata, le mie considerazioni in materia. Berlusconi mise poi, successivamente, in atto la sua ipotesi privando i comuni di risorse importanti, infatti l’impegno alla compensazione della riduzione di gettito non venne rispettata e i cittadini pagarono il risparmio dell’Ici con un calo quantitativo e qualitativo dei servizi, per i quali i comuni non avevano più risorse sufficienti.
In quel tempo ero sindaco di Bologna e ho visto, da soggetto coinvolto, questa transizione che ha ridotto la redistribuzione del reddito e indebolito i servizi a discapito della parte più debole delle comunità. Siamo cosi arrivati fino al governo di tecnici.
Di fronte ai guasti prodotti dalla normativa in essere e all’esigenza di ridare fiato (e risorse) ai comuni sarebbe stato ragionevole, di buon senso, ritornare alla normativa precedente, al massimo con un poco di fisiologica manutenzione. La tendenza ad apparire innovatori ad ogni costo tuttavia non ha risparmiato i professori, anzi si sono sentiti sfidati e hanno anticipato e irrobustito l’Imu decisa prima di andarsene da Berlusconi.
Qual è stata la conseguenza? Un primo danno prodotto dalle modalità confuse e approssimative di applicazione e un altro danno derivante da alcuni contenuti della legge che aumentano la pressione fiscale e la rendono fortemente iniqua. L’incertezza sulle modalità di calcolo e sui valori medi e il balletto sulle date di entrata in vigore hanno creato forti preoccupazioni e molte contrarietà nei cittadini. E come capita spesso in queste circostanze molti pensano di dover pagare più di quanto effettivamente gli toccherà e di essere, in ogni caso, penalizzati da provvedimenti iniqui.
E’ auspicabile che il “clima” muti a questo proposito e che l’esperienza negativa serva ai futuri governi per non ripeterla, qualunque sia la materia oggetto d’intervento.
Resta il merito, e non è poco. In primo luogo rimane in campo l’esenzione per le proprietà della Chiesa, anche quando utilizzate a fini commerciali, dalla tassazione sugli immobili, decisa inizialmente da Berlusconi. In questo modo, oltre ai minori introiti fiscali per lo Stato, si ha un grande e ingiustificato vantaggio per le attività commerciali situate in un edificio di proprietà del Vaticano rispetto ai loro concorrenti.
Inoltre vi è l’appesantimento della tassa da pagare, che è dato sostanzialmente, come si sa, da due cose: la sua estensione a tutti gli immobili e la maggiorazione delle rendite catastali dal 60% che viene applicata a tutte le tipologie di immobili. L’estensione a tutti gli immobili, indistintamente, non è priva di ragione ma ignora il rapporto con la ricchezza complessiva del cittadino e diviene, oggettivamente, distorsiva e iniqua.
Per quanto riguarda il catasto, la norma contenuta nella delega fiscale relativa alla sua riforma è benvenuta. Era ora. Ci provò Prodi ma il Parlamento non riuscì ad approvarla in tempo, con grande soddisfazione di molti. Le norme vigenti sono vetuste, risalgono a un tempo lontano, i valori catastali non corrispondono quasi mai a quelli di mercato e sono quasi sempre inferiori agli stessi. Il fenomeno è più accentuato nelle città rispetto ai piccoli comuni, nei centri storici rispetto alle periferie, nei comuni dell’Italia centrale rispetto agli altri territori del Nord e del Sud.
Senza mettere in discussione il valore di un prelievo patrimoniale, appare evidente che la rivalutazione dei valori catastali del 60% per tutti accentua gli squilibri e le iniquità. La base imponibile a valle della rivalutazione si stima che sia circa il 50% del complessivo valore di mercato degli immobili, di conseguenza la tassazione dopo la riforma catastale è destinata a crescere notevolmente con grande preoccupazione dei cittadini.
Tralasciamo il fatto che la rivalutazione poteva essere fatta a valori di mercato fin da subito fissando le aliquote a valori più bassi (senza alterare il gettito complessivo), il problema vien ancora prima ed è stato implicitamente ammesso dallo stesso Governo. Se si pone come problema grande la riforma del catasto e poi si incardina la nuova tassa sull’incremento dei valori esistenti è evidente che si mette in movimento una grande contraddizione che produce iniquità perché agisce su differenze iniziali ingiustificate. Ha senso restare per 4 o 5 anni in questo stato di incertezza?
Giuseppe Verdi nel 1871 scriveva a conclusione di una lettera inviata a Francesco Florimo: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”. Il Maestro si riferiva alle tendenze musicali. Potremmo prendere in prestito le sue parole e usarle per l’imposta sugli immobili.
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