ROMA – L’elezione di Claude Juncker a presidente della Commissione Europea segna una novità positiva nella definizione delle istituzioni comunitarie. Viene collocato alla più alta responsabilità il candidato, per quel ruolo, che il PPE aveva scelto nel suo congresso e presentato alle elezioni europee. Dunque la candidatura di Juncker è stata il frutto di un nuovo e apprezzabile atto democratico.
Le novità positive tuttavia, secondo me, finiscono lì. Per iniziare non è comprensibile la ragione per la quale l’elezione del candidato sia legata a una sua proposta pseudo-programmatica che vorrebbe definire un perimetro di coalizione tra le forze politiche parlamentari, del tutto improprio. In secondo luogo la proposta di Juncker, a mio parere, non prospetta un vero e visibile cambiamento di rotta nella politica economica e sociale dell’Unione, per questo non è facile comprendere perché sia stata accolta con enfasi e calore da parte del gruppo socialista e, almeno in parte, dai liberali.
Ma torniamo alla pseudo-coalizione. Il vero programma di azione della Commissione sarà definito dal suo presidente in sintonia con la platea dei commissari, ma i commissari non saranno scelti dalle forze politiche cosi come sono rappresentate in parlamento ma dai governi nazionali e la diversità negli orientamenti non sarà piccola, anche perché la scelta dei commissari risponderà a logiche nazionali e non comunitarie (lo sta a dimostrare con tutta evidenza lo scontro in atto sul vicepresidente con la delega agli esteri).
Il programma di Juncker dunque non è un programma ma una dichiarazione di intenzioni che potrebbero cambiare sensibilmente. Ma l’esame, non strumentale, del testo conferma che non siamo di fronte a esplicite scelte “riformiste” figlie di una fisiologica ricerca di compromesso tra opzioni iniziali diverse. Se posso usare un’immagine concreta il tessuto del vestito (la proposta) è il programma elettorale di Juncker al quale sono stati sovrapposti ritagli di tessuto diverso e colorato (i temi riformatori). Ma anche se luccica un po’ il vestito rimane quello di prima.
Il patto di stabilità e di crescita, causa di gran parte dei problemi attuali per come è stato pensato e realizzato, viene confermato integralmente e la “flessibilità” richiesta dai progressisti viene liquidata come parte integrante e già esistente del patto (ma nessuno se ne era accorto). Il tema della sostenibilità, nello sviluppo, nelle politiche industriali e in quelle energetiche non trova spazio.
E’ evidente come il tema dell’ambiente non appartenga all’orizzonte politico di Juncker. Ancora, la priorità del lavoro non è affrontata con una proposta concreta di politiche keynesiane. L’ipotesi dei 300 miliardi d’investimenti non è supportata dalla necessaria condizione, per praticarla, di rinegoziazione del bilancio comunitario e di ricapitalizzazione della BEI. La ricostruzione di una rete forte di diritti individuali e collettivi dopo la loro erosione prodotta dalla crisi non è concretamente presa in considerazione. E si potrebbe continuare. Ma allora perché impegnarsi da parte dei progressisti non solo nell’elezione del candidato ma anche nella condivisione delle sue intenzioni? Confesso di non averlo capito.
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