ROMA – Vincenzo Vita ha pubblicato questo articolo anche sul Manifesto di mercoledì 4 febbraio, col titolo: “Il digitale sul Colle”
E’ la prima volta che il “digitale” entra in scena nel discorso di insediamento di un Presidente della Repubblica. Infatti, Sergio Mattarella –il nuovo Capo dello Stato- ha utilizzato un termine spesso rimosso nel e dal dibattito pubblico, aprendo uno squarcio sul tema inquietante del divario tra chi è tecnologicamente tutelato e chi no.
L’Italia è ormai la maglia nera d’Europa sulla velocità della ”banda larga”, ed è pure arretratissima nelle connessioni. Si tratta, come è noto, di uno dei punti più delicati della stagione del capitalismo cognitivo, nonché della morfologia dei linguaggi e delle relazioni della contemporaneità. Non occuparsene è un delitto e bene ha fatto il neo Presidente a cogliere simile urgenza, in una riflessione asciutta ma chiara. Ivi compreso l’accenno al doveroso utilizzo dei nuovi strumenti nella Pubblica amministrazione. Con un altro riferimento preciso, che allarga la visuale al dettato costituzionale dell’autonomia e del pluralismo dell’informazione.
Ecco, è una felice carta da visita del primo cittadino, che le cronache di questi giorni hanno ampiamente ricordato come protagonista antico della vicenda radiotelevisiva. Alla fine del luglio del 1990 Mattarella si dimise dal governo Andreotti insieme a quattro colleghi della “sinistra democristiana”, in segno di protesta contro la legge dell’allora ministro Mammì, sulla quale fu messa –tanto per cambiare- la fiducia.
Fu la beatificazione del potere berlusconiano, cui furono concesse (caso unico al mondo, insieme al Messico) ben tre reti nazionali, numero diventato “sacro” e immutabile negli anni successivi, tra complicità e distrazioni, figlie della caparbia resistenza del “partito del conflitto di interessi”. Allora si giocò un pezzo rilevante della storia italiana, premessa della nascita di “Forza Italia”. Formazione nata nel video e sospinta dal vento favorevole dell’occupazione proprietaria dell’etere.
Ebbene, ci furono dei nobili no nei riguardi del grave processo involutivo del rapporto tra media e politica. Negli altri paesi europei – dalla Francia, alla Germania, alla Spagna- si dava luogo alla concorrenza e alla rappresentazione di idee e di culture diverse, mentre in Italia si bloccò la lancetta degli orologi sul vecchio schermo generalista, impedendo l’evoluzione del pluralismo tanto politico quanto tecnico. Molti dei guai di oggi nascono da lì, come pure dall’incosciente assenza di visione sul versante del servizio pubblico, relegato al ruolo –via via ingiallito- di monopolio bis.
La riforma venne progettata dal centrosinistra negli anni 1996/2001, con Sergio Mattarella vice Presidente nel governo di D’Alema, ma l’ostruzionismo ostile delle destre e il fuoco amico di parti del centrosinistra affossarono lo spirito innovatore. Quel testo (capostipite dei tentativi seguiti e delle speranze attuali) fu difeso da Mattarella, sicuro e convinto sostenitore della visione pubblica della comunicazione.
Quindi, i cenni del discorso di apertura del settennato nascono da lontano e sono frammenti preziosi da prendere davvero sul serio. Se si raccordano con il costante richiamo alla Carta fondamentale e alla categoria della solidarietà, si coglie la premessa di un vero e proprio Manifesto. Non è corretto tirare la giacchetta della massima autorità, né è ragionevole dare valutazioni preventive. Aspettiamo con fiducia, sognando di poter avere un illustre garante del carattere costituzionale dell’informazione. E’ stato citato il capitolo duro della criminalità in rete. Ma digitale è pure il cuore della democrazia, per come si svolge ora.