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Terrorismo in Italia, Sergio Luzzatto, le Brigate Rosse nella vita e morte di Riccardo Dura, le ambiguità del Pci

Terrorismo in Italia: è uscito un libro – monumento che racconta e ricostruisce il ventennio più controverso e mai interamente narrato del terrorismo rosso in Italia, quello delle Brigate Rosse e dei loro satelliti.
Lo ha scritto con il titolo “Dolore e furore – Una storia delle Brigate Rosse” per Einaudi un genovese, storico di vaglia, Sergio Luzzatto, oggi docente di Storia nell’Università del Connetictut, già autore di libri celebri, “Il Corpo del duce”, “Giù in mezzo agli uomini. Vita e Morte di Guido Rossa” e tanti altri (come quello su Padre Pio) tradotti in molte lingue.
Con il pretesto di scrivere una storia delle Brigate Rosse, come si legge nel sottotitolo, Luzzatto compie una ricostruzione completa di come è nato, come si è diffuso, come ha terrorizzato l’Italia e come è stato sconfitto il terrorismo negli anni dalla fine dei Sessanta alla metà degli Ottanta.
L’epicentro è Genova, la città di Luzzatto, della sua famiglia non una qualsiasi, fatta di studiosi, medici, professori, gente sempre ricca di talenti.
Città dove in qualche modo le Br hanno cominciato e compiuto le prime imprese, impiantandosi in un tessuto preparato e poi germogliato tra l’Università di Lettere, l’Ospedale di san Martino, le periferie e, ovviamente le grandi fabbriche dei sessantamila operai di quegli anni.
E non poteva che essere questa città di muri e spinte di ribellione, dove esistevano in realtà due grandi “Chiese”, quella cattolica romana, incarnata da un cardinale- principe, Giuseppe Siri, un doge, dal tratto duro, conservatore, severo, che suscitava dissensi e strappi nell’era del Concilio Vaticano II.
E il Partito Comunista, l’altro tempio monolitico, che occupava il mondo del lavoro e si espandeva, con la sua ideologia granitica, un consenso crescente un “album di famiglia”, una strategia che viaggiava verso una politica che piano piano si apriva, dopo Budapest e Praga, verso orizzonti diversi, mantenendo a fatica, però, nel suo confine ideologico, spinte rivoluzionarie, in porto sopratutto, nella miscela poi del rapporto tra operai e studenti.
Il filo dei racconto, lungo settecento pagine, scelto da Luzzatto è quello geniale della biografia di Riccardo Dura , “Roberto”, il capocolonna genovese, ucciso in via Fracchia con un colpo alla testa, nel famoso e discusso blitz dei carabinieri del Generale Dalla Chiesta, Dura, l’uomo che, tornando indietro dall’agguato all’operaio Guido Rossa, decise da solo di giustiziarlo con un colpo di grazia alla testa, dopo che era stato solo gambizzato, come avevano deciso “i capi”.
Perchè Dura, perché “il terrorista senza nome, il cadavere che non era neppure stato identificato e che solo per la pressione sulle Br di un ex Lotta Continua, un altro personaggio iniziale di questa storia, Andrea Marcenaro, genovese anche lui di nota famiglia, che aveva avvicinato alla lotta politica un poco più che ragazzo “difficile”, venne svelato da Mario Moretti?
Perchè il percorso umano e rivoluzionario di quel ragazzo genovese, nato in Sicilia, dal destino sciagurato, ricostruito nei minimi particolari, uscito dal buio totale sulla sua tormentata esistenza, può riassumere bene quello che sta a cuore anche scientificamente all’autore.
Scoprire le origine della spinta brigatista rivoluzionaria, svelare sulle spalle di quali uomini, di quale “capitale umano” si è poggiato il periodo più duro del nostro Dopoguerra.
Quello anche più velocemente rimosso, malgrado le centinaia di morti e la immane sfida allo Stato e alle sue istituzioni.
Così la breve vicenda umana di Dura, un “garaventino”, affidato a una istituzione marittimo-benefica, la scuola “Garaventa”, ospitata su una nave alla fonda del porto, che trattava i casi difficili, poi un marittimo in cerca di imbarchi , poi un marinaio militare, con un durissimo rapporto con la madre Celestina De Leo, diventa il paradigma su cui costruire la ampia ricchissima narrazione brigatista.
In una opera che è stata definita “definitiva” sul fenomeno terroristico da Gad Lerner, giornalista che se ne intende della materia, da ex Lotta Continua, poi giornalista a Genova a “Il Lavoro”, nei tempi durissimi del terrorismo “furente”, poi in carriera nei grandi giornali italiani e in Tv, si trovano tutti i “fili” che portano alla geometrica potenza delle Br, poi al loro crollo.
La straordinarietà del lavoro capillare dell’autore è proprio quella di essere riuscito ad estrarre e collegare, uno ad uno, tutti i fili che legano la nascita delle Br, sopratutto ma non solo, della loro “colonna genovese”, fatta di militanti prevalentemente non genovesi, capace di molte primogeniture.
Il primo sequestro-ricatto allo stato, quello del magistrato Mario Sossi, dopo quelli del capo personale Fiat Ettore Amerio, il primo assassinio, organizzato da un commando vero e proprio, del magistrato Francesco Coco, procuratore generale e della sua scorta.
I fili dei racconto pescano nell’humus genovese degli anni Sessanta, intorno al Sessantotto, nei primi rigurgiti rivoluzionati della banda XXII Ottobre di Mario Rossi, che sequestrò nell’ottobre 1970 Sergio Gadolla, figlio dell’imprenditore Fausto, con un riscatto di 200 milioni. E uccise il fattorino dello Iacp, Alessandro Floris per rubargli i 17 milioni di lire di mezzo secolo fa degli stipendi appena ritirati in banca.
La foto di Mario Rossi, che spara dal sellino posteriore della Lambretta all’impiegato, proteso a difendere la borsa con i soldi, è una delle icone chiave della storia terroristica genovese.
Ma non sono solo i “tupamaros della Val Bisagno”, come venivano chiamati i cosi eterogenei componenti della XXII Ottobre, il filo che si avvolge intorno alla grande ricostruzione delle origini brigatiste.
Con una minuzia perfezionista di ricerca e di testimonianze orali Luzzatto, ricostruisce molti ambienti di quella Genova di fine boom e prime rivolte contro quelle due “Chiese” e contro il “potere”.
Viaggia dal mondo cattolico del dissenso a quello dei gruppi scout dai quali nascono le comunità di assistenza ai ceti più deboli del centro storico, a quello, in qualche modo “aristocratico” dell’Università, che sforna i veri cervelli della ideologia rivoluzionaria. I primi assolutamente estranei a ogni forma di violenza rivoluzionaria, anzi “i buoni samaritani” delle emergenze sociali. I secondi i veri “cattivi maestri” che pescano nella ribellione, nel disagio sociale, nella contestazione politica dei post Sessantotto.
Ecco allora sbucare in via Balbi, la strada universitaria, dal numero civico 4, Facoltà di Lettere, alla sua sfilata di nobili palazzi, figure come Gianfranco Faina e Enrico Fenzi, il primo docente di Storia delle dottrine politiche, il secondo una dei più importanti studiosi di Petrarca in Italia.
Faina e Fenzi, insieme al genero di questo ultimo, Giovanni Senzani, sono figure che si stagliano con forza nel racconto. Raffigurano, sopratutto Faina, l’elemento psicologico della formazione rivoluzionaria, di indottrinamento, quello che cattura i giovani dei movimenti extraparlamentari, da Lotta Continua a Potere Operaio a Autonomia Operaia a Lotta comunista.
E li spinge verso la rivoluzione, verso gli atti estremi della militanza, fino alla clandestinità, nella quale spariranno loro stessi, dopo un percorso lungo, lunghissimo, tra aule universitarie, centri di assistenza e solidarietà, assemblee, esami con il 30 a tutti.
Poi c’è l’altro filo, che riguarda il movimento operaio, con una specie di radiografia nelle diverse grandi fabbriche genovesi, nel tempo degli scioperi duri, delle grandi battaglie sindacali, ma anche di quelle più estreme di chi contestava a sinistra i leader storici. Dove alla fine c’è molto furore, ma pochissima adesione agli indottrinatori.
A volte i diversi fili si legano l’uno all’altro, in altri casi si staccano, facendo emergere altre figure, coinvolte nel movimento brigatista in fieri. Come l’avvocato Giovanni Battista Lazagna, più un teorico che un militante. E l’avvocato Edoardo Arnaldi, suicida mentre i carabinieri stavano arrestandolo, in un elegante appartamento del centro di Genova.
Ma ci sono anche personaggi che emergono nel racconto, pur essendo così lontani dalle dinamiche terroristiche, anzi, senza avere affatto un ruolo nelle operazioni di militanza o clandestinità.
E che partecipano solo a quell’humus di impegno sociale con diversissime possibilità di sviluppo, sulle quali si posano gli occhi degli inquirenti, degli Uffici politici delle Questure, dell’Ufficio Affari riservati, spesso brancolanti nel buio.
Il setaccio di Luzzatto e la spina dorsale della narrazione, con Dura protagonista sempre, raccolgono appunto anche personaggi benefattori, come Andrea Canevaro, fondatore di centri di solidarietà e assistenza, Sandro Baracico e Marco Monteverde, capiscout, fondatori della Comunità del Molo e di altre basi di assistenza, lo stesso don Andrea Gallo, ai primordi delle sue battaglie contro la droga, dopo quelle contro Siri e tanti altri, magari protagonisti minori.
Ma testimoni di quel percorso nel quale Riccardo Dura “viaggia” verso il suo terribile destino: la militanza con la stella a cinque punte, la clandestinità, i “gradi” di capocolonna nella gerarchia segreta delle Br, l’assassinio senza pietà di Guido Rossa e infine la morte con un colpo alla testa in quell’appartamento di via Fracchia dove tutto si chiude in una gelida mattina.
E’ “una” storia, ma potrebbero essere molte, anche se diverse da questa, che è genovese, ma spazia ovunque in quegli anni di terrore.
Luzzatto ricorda tutti gli attentati, tutte le preparazioni, il dibattito interno delle colonne, i contrasti. Che Genova ne esce? Una città appunto rattrappita dietro i suoi muri, dentro le sue Chiese e le sue periferie, di grandi spinte sociali di diversa provenienza, cattolica, comunista, un po’ meno operaia.
Al punto che il finale drammatico del postino brigatista, dipendente Ansaldo, Francesco Berardi, suicida in carcere a Cuneo, dopo avere “parlato” e dopo avere provocato il destino di Guido Rossa, facendolo giustiziare proprio da Dura, diventa una delle poche dimensioni di un rapporto con gli operai, con le fabbriche, che in questa città di tanti ex partigiani, di portuali duri e internazionali, poteva essere ben più largo, se il messaggio, l’indottrinamento di quei “maestri” fosse veramente passato.
E’ anche per questo che i sequestratori di Sossi vengono da fuori, capeggiati da quell’ Alberto Franceschini, ex FIGC, uno dei capi storici fondatori della stella a cinque punte, un emiliano e poi da Rocco Micaletto, leader indiscusso della colonna, non certo un genovese.
Sono genovesi, invece quelli che poi in molti o fuggono, come Leonardo Bertulazzi o Baistrocchi e non se ne sa più niente o si pentono come Carlo Bozzo, quando dopo i confiteor e le rivelazioni e dopo via Fracchia, tutto improvvisamente si sfascia.
Il corpo di Riccardo Dura resterà quattro giorni in una cella frigorifera dell’Obitorio di San Martino, prima di avere la sua identità, che esploderà come la prova di una clandestinità, impossibile da violare per tanti anni e che di colpo si squarcia con il suo corpo da terrorista sconosciuto. Una storia che comincia a Genova e finisce a Genova.
Con furore e poi con tanto dolore e lutti, tante vittime e uno stuolo di parenti e amici ai quali non resta che ricordare, portare fiori, inchinarsi davanti a tante lapidi.  

Una cosa manca in  questo gran bel libro, una analisi sul rapporto fra Pci e terrorismo, fra il grande partito e i compagni che sbagliavano.

Nel 1966 Luzzatto aveva solo 3 anni e non può ricordare un episodio cruciale nel rapporto fra ultra sinistra e Pci, lo scontro in piazza De Ferrari a Genova fra un gruppo assortito di sinistra e le forze dell’ordine. L’episodio è stato rimosso dalla memoria italiana eppure lo si può individuare come momento base di quel rapporto.

L’occasione fu data dalla decisione del Governo di trasferire la direzione dell’Italcantieri da Genova a Trieste. Scesero in piazza a centinaia: operai, marittimi disoccupati, giovani proletari, gente di mano. Fu una rivolta spontanea, i più erano usciti dal rione di Genova che va da via San Lorenzo al Molo, una volta cuore della più sofferente plebe.

Ne furono arrestati una trentina. Il processo a quel gruppo di uomini incatenati vide come regista il futuro presidente della Corte di Cassazione Nicola Marvulli.

Il Pci li bollò inizialmente come teppaglia. Era il tempo della Rivoluzione culturale in Cina e i cronisti li etichettarono cinesi.

Poi il Pci fece retromarcia e mandò a difendere quel gruppo di violenti il migliore dei loro avvocatia Genova e in Italia, l’imperiese Raimondo Ricci, in anni successivi destinato a importante carriera in Parlamento.

Ho sempre pensato che quella esperienza, collegata col principio del nessun concorrente a sinistra, abbia pesato nei dieci anni successivi, sull’ambiguo rapporto fra Pci, Cgil e terrorismo, che poi il sacrificio di Guido Rossa ha esorcizzato. 

E poi c’è il Grande gioco sovietico spostato in Europa. Si ricordi quello che, intervistato da Walter Veltroni per il Corriere della Sera del 10 luglio 2019, disse Aldo Tortorella, uno dei massimi del vecchio Pci: “E poi il terrorismo. Nessuno mi toglie dalla mente che i sovietici abbiano lavorato per far saltare il compromesso storico, per impedireaBerlinguer di inverare la prospettiva della partecipazione al governo. Se lui fosse riuscito sarebbe stato un colpo alla linea dei sovietici”.

Tutti rami di inchiesta e riflessione che prima o poi qualcuno non di destra proverà a percorrere”.

Marco Benedetto

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