ROMA – Vincenzo Vita ha pubblicato questo articolo anche sul Manifesto del 31 dicembre 2014.
“Un anno d’amore”, cantava Mina nel 1964, ma non sappiamo quanto il 2015 sarà un periodo di feeling tra Matteo Renzi e il mondo della comunicazione. Se il buongiorno si vede dal mattino, gli auspici non sono tra i migliori, dopo la doppia chiusura de “l’Unità” e di “Europa”, importanti strumenti di informazione prima ancora che organi di partito.
E non sono un buon sintomo né il continuo stop and go sul canone della Rai, né la curiosa stasi del nuovo contratto di servizio con il servizio pubblico, che rischia di essere approvato dopo la sua scadenza. Per non dire della riforma dell’azienda –epifenomeno della politica degli annunci- sulla quale il Presidente del consiglio è tornato nella conferenza stampa di fine anno.
Dopo che il sottosegretario con delega Giacomelli ne aveva anticipato i termini in una lunga intervista uscita nel numero di ottobre di “Prima comunicazione”. Ben venga, dopo anni di conflittualità irrisolta sul futuro del perno dell’industria culturale italiana. E il resto? Il conflitto di interessi è rimasto nell’aula della Camera il tempo di un corto, di abrogare la legge Gasparri sostituendola con una normativa rigorosa neanche si parla più, sulla diffamazione a mezzo stampa si corre il pericolo di passare dal carcere fisico a quello delle querele temerarie, su copyright e par condicio siamo a un secolo fa.
Il Fondo dell’editoria è stato devastato. Sui nodi strategici, quelli della modernità vera, al momento solo dichiarazioni di intenti: neutralità della rete, banda larga e sviluppo equilibrato della tecnica digitale stretta quest’ultima tra invasività e tutela della privacy. Insomma, i temi del capitalismo cognitivo, prefigurati dal celebrato
“Frammento sulle macchine” dei “Grundrisse” di Marx (pubblicato nella traduzione italiana nello stesso 1964 della hit di Mina, e poi dici il caso) ancora stentano ad entrare in scena nella “normalità” dell’azione politica. Renzi ha azzardato che il “duopolio” televisivo di Rai e Mediaset è superato, ma non nel senso di una definitiva egemonia delle culture della rete, quanto piuttosto –c’è da supporre- per l’aumento dei canali sul telecomando. In verità, dal duopolio si è passati al monopolio di fatto, al pensiero unico.
Poche e temerarie le eccezioni, folta la corsa ad agganciare il carro vincente. E proprio la Rai è il banco di prova, in quanto una riforma azzeccata diventa il traino di un ripensamento generale. Ma come? Si è fatto strada il proposito di rendere l’azienda indipendente dalle influenze partitiche. E si parla da anni di far eleggere il vertice da un organismo rappresentativo delle organizzazioni della società civile e non solo dei gruppi parlamentari. E’ la strada giusta, ma richiede una scelta netta e impegnativa. Il servizio pubblico è, innanzitutto, fabbrica di contenuti di qualità, luogo del pluralismo: l’autobiografia della Nazione. Oggi la partita dei e sui media si gioca sulla produzione (il messaggio è il mezzo, non viceversa, addio McLuhan) e sull’intreccio con Internet e i social. Insomma, la Rai in tanto sarà servizio pubblico, in quanto diverrà l’architrave della Biblioteca digitale, globale e locale. Perché non immaginare una conferenza nazionale in cui si possa dibattere sul Dna del soggetto pubblico-bene comune, sulla base di una proposta redatta da un gruppo di esperti cossmediali italiani ed europei? “Ritmo”, il motto di Renzi, forse mutuato dal “Taca la bala” del compianto Helenio Herrera. Appunto, diamoci una mossa, prima che l’Italia diventi una irrilevante colonia culturale.