Tra un mese saranno passati vent’anni dal varo della legge n.22 del febbraio 2000, la “par condicio”. Non ci saranno celebrazioni, perché quel testo, assai più semplice e lineare di quello che una certa vulgata polemica ha inteso far credere (complici taluni regolamenti attuativi), è sempre stato mal digerito.
L’approvazione avvenne con fatica, con l’ostruzionismo dell’allora “Polo delle libertà” che non sopportava il cuore del testo: il divieto degli spot elettorali. Permettere simile pratica avrebbe avvantaggiato enormemente Silvio Berlusconi con le sue tre reti generaliste.
Tuttavia, nel seguito della vicenda l’oggetto della diatriba si spostò sull’applicazione concreta delle pari opportunità, immaginate con gradini successivi: fino alle maglie strettissime del periodo elettorale in senso
stretto, vale a dire dall’indizione dei comizi al voto.
Ma i difetti sostenuti dai fautori della deregulation (gli spiriti animali dell’ultima campagna elettorale) sono infondati. Mentre – se mai – vanno rilevati tre limiti. Per un verso la normativa fu immaginata in una stagione analogica, lontanissima dallo scenario digitale di oggi; per un altro allora vigeva un sistema bipolare (pur non bipartitico) assai più semplice di quello di oggi. E ancora: le sanzioni sono deboli e si prestano a facili ricorsi. In verità, nel primo testo preparato dal centrosinistra nell’agosto del 1999 erano trattati anche i “siti di informazione”, secondo il linguaggio dell’epoca. La discussione parlamentare cancellò subito quell’estensione ai supporti telematici delle regole pensate per i media radiotelevisivi e il buco divenne via via una voragine.
Insomma, ora che pare lontana l’eventuale fine della legislatura, sarebbe opportuno che si mettesse mano al vecchio articolato. Sanzioni forti, fino alla sospensione della licenza e modalità rigorose di riequilibrio dei tempi quando la violazione è accertata.
E veniamo al punto cruciale: i social. Abbiamo avuto un esempio disastroso nello scorso fine settimana: la
violazione plateale del silenzio elettorale e la pubblicazione su Facebook dell’incresciosa scampanellata al citofono di un ignaro giovane. Persino la società statunitense, tutt’altro che rigorosa nei suoi comportamenti, si è vista costretta a rimuovere il video dalla pagina di Matteo Salvini.
Una proposta: un articolo specifico, volto a far rispettare il silenzio, a vietare la diffusione dei sondaggi e a inserire qualche criterio per le dirette. In Francia, in Spagna e in Germania il tema è stato affrontato. Proprio la legge d’Oltralpe n.2°18-1202, entrata in vigore all’inizio del 2019, può essere un utile punto di riferimento. Insomma, una novella della legge del 2000 sarebbe utile prima delle prossime scadenze.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni potrebbe a sua volta fare una segnalazione al parlamento, lasciando a fine mandato un segno di qualche incisività. In questi anni non ha brillato e anche per questo le
emittenti hanno straripato. Eppure l’Agcom ha in base alla legge amplissimi poteri, che in verità usa poco.
Rimarrà un buco nero, ad esempio, la violazione avvenuta nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo della partita Juventus-Roma, quando Salvini fece un vero e proprio spot sotto specie di anticipazione di “Porta a porta”, nell’ultima settimana di campagna elettorale. La trasmissione di Bruno Vespa non è inserita nel Tg1 e, quindi, lo spot non poteva proprio essere trasmesso. C’è un giudice a Berlino o la ricreazione è infinita? La miscela televisione-social allo stato brado è terribile.