ROMA – Cina. Xi Jinping, da tre mesi nuovo segretario del Partito Comunista Cinese, capo del Politburo, in procinto di assumere a marzo la carica di Presidente della Cina, ha esortato i funzionari di partito a riappropriarsi della disciplina leninista, se non vogliono che la nazione finisca, imploda, come l’Unione Sovietica. “Perché l’Urss si disintegrò? Perché il Partito comunista sovietico collassò?” ha chiesto retoricamente ai compagni. “Un motivo importante è che i loro ideali e le loro convinzioni vacillarono. Alla fine, bastò una parola sussurrata da Gorbaciov per dichiarare dissolto il Pcus, e un grande partito svanì. Alla fine nessuno si dimostrò un vero uomo, nessuno ebbe il coraggio di resistere”.
Un ammonimento, una lezione, un esorcismo: Xi Jinping ne ha parlato a porte chiuse, un messaggio riservato ai funzionari di cui, nelle linee essenziali, un blogger è riuscito a far filtrare all’esterno un riassunto. Parole che riassumono l’orgoglio per l’appartenenza al glorioso partito comunista cinese, depositario e custode del messaggio rivoluzionario. Parole che mostrano, una volta di più, l’irriducibile alterità del comunista cinese da quello sovietico, dopo decenni di incomprensioni e rivalità, teoretiche (riguardo alla forma partito e al ruolo degli intellettuali), culturali, a misura della distanza tra l’antica civiltà cinese e i “barbari” delle steppe, un disprezzo malcelato e che nelle segrete di un comitato centrale emerge con tutto il carico di risentimento a mala pena trattenuto pubblicamente. Il giudizio storico, a vent’anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, non poteva essere più impietoso, specie se pronunciato dal leader dell’ultimo baluardo del comunismo mondiale.
Comunismo cinese, quale comunismo? Mentre Xi Jinping è impegnato in un “tour promozionale” nel sud, nel Guandong, l’area più produttiva del paese, il testo con cui chiamava il partito a maggiore unità e obbedienza ha fatto il giro del mondo. In fondo si tratta del primo vero test per tracciarne un profilo politico, per tentare un giudizio prospettico sul leader di quella che si avvia a diventare la prima potenza globale, un orizzonte di almeno 10 anni. Ne dà conto il New York Times del 15 febbraio, con una corrispondenza da Honk Kong di Chris Buckley.
Da una parte c’è lo Xi Jinping che in pubblico tiene a presentarsi (è lo scopo del viaggio al sud) come audace riformatore nel solco tracciato da Deng Xiaoping: il grande balzo, la crescita inarrestabile, le riforme indispensabili. Dall’altra, c’è il volto impassibile dell’uomo del partito/stato, che richiama i funzionari alla lealtà perché basta una parola a far crollare un regime, è sufficiente un attimo di debolezza per precipitare nell’oblio il più grande partito del mondo. Non suoni questa doppia immagine contraddittoria o sintomo di doppiezza morale, prima che politica.
Sostiene Ma Yong, storico alla Chnese Academy of Social Sciences: “A parole sono tutti per le riforme, nei fatti tutti hanno paura delle riforme. La questione è: può una società essere tenuta sotto controllo mentre avanza prepotentemente? Questo è il test.” Questa la sfida politica mondiale più importante dei prossimi dieci anni.