ROMA – Nomine Ue, Renzi non tratta e s’illude. Versailles 1919, un precedente storico
Il piano è di arrivare a Bruxelles all’ultimo momento utile. Ed è un piano studiato. Obiettivo: non lasciarsi trascinare in bilaterali infiniti, con il rischio di trovarsi dentro giochi di sponda non alla luce del sole. E’ per questo che Matteo Renzi arriva al Consiglio europeo di stasera giusto in tempo per la cena con gli altri 27 leader dell’Ue. (Angela Mauro, L’Huffington Post, 16 luglio)
Come il Barone Macchi di Cellere spiegò altezzosamente al delegato americano, “l’Italia non si fa propaganda da sola; è una terra troppo antica, una razza troppo orgogliosa”. Pochi fra i membri (della delegazione italiana, ndr) coltivarono i contatti informali con le altre delegazioni come fecero americani e inglesi. (“Paris 1919: Six Months That Changed the World”, Margaret MacMillan)
Lo stallo europeo sulla designazione dei prossimi Commissari e delle posizioni apicali nel governo dell’Unione (se ne riparla ad agosto) riflette la difficoltà oggettiva di conciliare aspirazioni, interessi e rivendicazioni di 28 nazioni differenti: l’Italia di Matteo Renzi, che guida fra l’altro il semestre europeo, nella difficile partita delle nomine ha espressamente indicato un nome e una posizione (Federica Mogherini come ministro degli Esteri europeo, un socialista all’Economia) nella forma ultimativa, ormai caratteristica del decisionista Renzi, del “prendere o lasciare”.
Le carte su cui puntare, almeno secondo la pubblicistica nazionale, il carisma del giovane presidente del Consiglio, legittimato dall’imponente consenso elettorale che ha stracciato l’euroscetticismo montante, il potere di persuasione esercitato sui “big” europei, la forte Angela Merkel, il tremebondo Francois Hollande, reduce dalla batosta elettorale.
Stop. E infatti, a poche ore dall’intesa ormai data per scontata, viene fuori che non una singola nazione, ma addirittura un blocco dei paesi baltici e dell’Est esprimeva il suo veto alla persona di Mogherini, rea di aver esibito un rapporto troppo cordiale con l’orso di Mosca, Putin, implicitamente dando prova come minimo di inesperienza sulla scena internazionale.
Se il complicato meccanismo delle diplomazie merita l’accostamento obbligato al gioco del “Risiko”, in Italia i luoghi delle decisioni e dei compromessi a livello internazionale sono invariabilmente etichettati come “tane di belve” (Lucia Annunziata, Huffington Post)), dal che si desume che noi antichi e orgogliosi della schiatta italica siamo incapaci di intraprendere vischiose relazioni, allergici come siamo a ogni forma di lobby (detestabile termine albionico che sottintende ruffianeria e calcolo). Oggi come ieri, questa settimana a Bruxelles, poco meno di cent’anni fa alla Conferenza per la Pace a Versailles.
Intanto, a prescindere da Mogherini (sarebbe importante assicurarsi l’immigrazione, visto che la politica estera europea se esiste non si fa a Bruxelles) trascuriamo di instaurare rapporti, stringere amicizie, capire le personalità con le quali è utile un confronto per metterci in condizioni di contare nei posti decisivi, come le tante direzioni generali dove si fa giorno dopo giorno la politica comunitaria. Pochi giorni fa, sul Sole 24 Ore, un euro-diplomatico di lungo corso spiegava la situazione:
Ancora due anni fa avevamo sette direttori generali in commissione, cioè i posti che contano: grossomodo stessa quantità, e, soprattutto qualità simile a quella degli altri grandi Paesi, Germania, Francia, Gran Bretagna. Tra pensioni e passaggi ad altri incarichi, oggi siamo scesi a quattro: abbiamo perso le Dg Affari interni, Fondi regionali e Allargamento. (Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore)
La “tana delle belve” va affrontata, anche perché non si fa troppa strada con la retorica dannunziana della “vittoria mutilata” quando poi le cose non vanno per il verso giusto, alibi e medicina contro le inevitabili “self delusion” (ci ricordiamo di D’Alema prima e Frattini poi?)di chi entra da papa al conclave e ne esce cardinale.
Le “belve” non si fidano degli italiani e per quanto pregiudizievole e anacronistico, lo stigma riguarda un paese che ha cambiato casacca in due guerre mondiali, offrendo per di più lo spettacolo di un primo ministro (Vittorio Emanuele Orlando) in lacrime davanti a Wilson prima di cominciare le trattative a Versailles (ottenemmo il sud Tirolo che era tutto tedesco e la neutralità di Fiume che era in maggioranza slava, dopo una carneficina inutile in cui persero la vita 600 mila italiani e altri 900 mila rimasero mutilati o feriti).
Matteo Renzi: “Per l’Alto rappresentante per la politica estera non c’è altra candidatura che quella dell’Italia”. E in tono polemico: “Siamo venuti qui per un accordo che non c’era, bastava un sms”. (La Repubblica)
I commenti sono chiusi.