In Europa si assiste alla crisi del settore automobilistico, una delicata situazione che coinvolge i principali costruttori. Stellantis, tra questi, sta vivendo un periodo di grande difficoltà, testimoniato dalla gestione dell’impianto torinese di Mirafiori. La situazione, già ampiamente complessa, ha visto anche un terremoto ai vertici del gruppo, con Carlos Tavares che ha rassegnato le dimissioni da amministratore delegato.
Con una fabbrica in via di dismissione, gli operai si ritrovano a dover fronteggiare una situazione complicata, alimentata anche dalla rabbia alla notizia della buonuscita milionaria di Tavares. Gli operai saranno in cassa integrazione tre giorni alla settimana, attendendo nuovi sviluppi sulla questione. Certo è che le circostanze appaiono davvero delicate e altrettanto problematiche.
In Italia, nel 1971, uscì un film che fece discutere fin da subito, ma che seppe allo stesso modo raccontare, meglio di altre produzioni, un certo tipo di dibattito politico attorno a una specifica classe sociale, quella operaia, narrandone condizioni e contraddizioni. Oggi, infatti, vi consigliamo La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri.
Il film racconta la storia di Ludovico Massa (Gian Maria Volonté), un operaio separato che a trent’anni si ritrova costretto a dover mantenere due famiglie, quella dell’ex moglie con il loro figlio e quella della sua attuale compagna, anche lei madre. Da oltre quindici anni Massa lavora in fabbrica in condizioni davvero pessime con orari disumani. Nonostante appaia come il lavoratore perfetto per i suoi datori di lavoro, Massa vive in uno stato di infelicità perenne, amplificato poi dalla meccanicità del proprio lavoro, che oltretutto non gli permette di vivere alcun tipo di relazione sociale soddisfacente.
Sempre distante dalle proteste studentesche, un giorno l’operaio si ritrova a dover fare i conti con un incidente sul lavoro che gli causa la perdita di un dito. Sentendosi emarginato e isolato, Massa decide di iniziare a partecipare alla ribellione combattendo lo sfruttamento sul lavoro. I toni della protesta si accendono sempre di più, fino a raggiungere lo scontro diretto con la polizia durante il primo sciopero generale.
Quando uscì, il film di Petri suscitò reazioni davvero aggressive da parte della critica, anche e soprattutto in certi ambienti della sinistra italiana, provocati nel profondo da una narrazione radicale, certo, ma che negli anni successivi sarebbe stata rivalutata come merita. Oggi, infatti, questo film, con i suoi assunti totali e colmi di drammaticità, ci appare come uno sguardo che senza dubbio aveva anticipato il morbo sociale che infettava tanto il secolo scorso quanto il nostro presente.
Come già accaduto l’anno prima con il capolavoro Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, la coppia Petri/Volonté indagava con lucida spietatezza condizioni e contraddizioni sociali, scrutando nelle profondità di una specifica psicologia dell’individualismo, prima ancora che in quella collettiva. Lo sguardo di Petri volgeva la vista, panoramica e spiazzante al millimetro, sul fatale pessimismo che scivolava lungo i bordi della pellicola.
“Bruciate le copie di questo film!”, gridava il regista Jean-Marie Straub dopo la proiezione in sala. La pellicola di Petri narra di un determinato stato di alienazione sociale, figlio soprattutto di una certa condizione operaia nelle fabbriche. Il regista racconta senza volersi rivolgere, forse con utopico romanticismo, agli studenti, ai politici e ai sindacalisti. Farlo alla maniera di Petri, distante anni luce dalle tradizioni cinematografiche italiane, voleva dire raccogliere tutto il marcio della critica lisciata dell’epoca e fregarsene altamente.
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