Emilia Pérez, diretto da Jacques Audiard, è il film del momento, o almeno risulta essere il più discusso. Al di là della natura espressiva e qualitativa del film, già ampiamente osannata dalla critica e duramente stroncata da buona parte del pubblico, la pellicola di Audiard ha fatto parlare di sé perché circondata dalle acque agitate delle polemiche. Quali? In primis le performance del cast, il fatto che gran parte di questo non sia di origine messicana, una non gradita rappresentazione delle persone trans, un eccesso stereotipato nella rappresentazione del popolo messicano e infine anche l’accento degli attori. Non poche cose, insomma, le quali non hanno fatto altro che animare la notorietà di un film che di premi ne ha già raccolti molti, e tanti altri ancora è destinato probabilmente a ricevere (ci avviciniamo agli Oscar).
Il cinema messicano
Il Messico ha una lunga, interessante e rispettabilissima storia cinematografica, che segue e dipinge spesso e volentieri il clima politico del Paese. L’esilio volontario in terra messicana di un regista del calibro Luis Buñuel, per esempio, ha portato alla produzione di alcuni tra i suoi film più noti: L’angelo sterminatore (1962), Lui (1953), Estasi di un delitto (1955) e Nazarín (1958). Dopo un periodo buio, in concomitanza con molte produzioni di genere dal valore artistico più basso, a partire dagli anni Settanta il cinema messicano è riuscito a liberarsi dalle produzioni più grandi, legandosi invece al concetto ben più libero di quelle indipendenti. Una libertà artistica che si traduce nella volontà di determinati registi di esprimere una certa critica alla società messicana. Da quel momento in poi, il cinema messicano è riuscito a emergere catturando l’attenzione di un pubblico sempre più vasto.
Negli ultimi anni, i noti Guillermo del Toro, Alejandro González Iñárritu e Alfonso Cuarón si sono imposti agli occhi della critica prima e del pubblico poi, come massima espressione di un cinema, quello messicano, che ha raggiunto vette forse mai toccate prima. Di film che testimoniano l’ascesa del cinema messicano ce ne sono diversi, tra cui Amores perros (2000), Il labirinto del fauno (2006) e il più recente Tótem (2023). Oggi, però, vogliamo consigliarvi quello che, secondo noi, rappresenta al meglio la più alta forma espressiva di questo cinema, affidata allo sguardo di un grande regista: parliamo di Roma, del sopracitato Alfonso Cuarón.
Roma, di Alfonso Cuarón
Città del Messico, 1970. La domestica Cleo (Yalitza Aparicio) e la sua collaboratrice Adela (Nancy García García), entrambe di discendenza mixteca, lavorano per una piccola famiglia borghese nel quartiere Roma. La famiglia è guidata da Sofia (Marina de Tavira), madre di quattro figli che deve fare i conti con l’assenza del marito. Il ritratto di un conflitto domestico si mescola a quello di una città che vive una profonda instabilità economico-politica. Una notizia inattesa e devastante rischia di compromettere i rapporti tra Cleo e la famiglia di cui si occupa e per la quale svolge mansioni di ogni tipo.
Alle donne che il film mette in scena è stato rimosso il terreno da sotto i piedi. Ondeggianti in una dimensione che è quella nella quale l’uomo si presenta come il padrone di tutto, colui che muove in avanti la storia messicana, Cleo e Sofia, distantissime eppure legate da un ignobile destino, ricercano la propria identità misurandosi con un mondo che le ha lasciate sole e prive di ogni sicurezza. Scavando in modo così profondo, delicato e squisitamente autoriale nelle vite delle protagoniste, Cuarón elude con grande maestria le trappole del film-denuncia, pur mantenendo, almeno per quello che riguarda il mondo al di fuori dell’intimità dei personaggi, un potente e incisivo sguardo provocatorio sul sistema politico messicano.
Poggiandosi sui ricordi della propria infanzia, il regista realizza un film di personaggi, prima ancora di introdurli all’interno di una storia nella quale ogni più piccolo gesto, fragile solo all’apparenza, appare estremamente prezioso e rappresentativo. Tutte le scene del film, infatti, si animano della bellezza di vere e proprie istantanee di vita vera, anzi verissima, trasferita su schermo nella potenza visiva di un bianco e nero eccezionale e con la scelta di prediligere, senza scadere nel superficiale virtuosismo, un gran numero di straordinari piani sequenza.