
La locandina, il consiglio cinematografico di oggi: Taxi Driver, di Martin Scorsese - Blitz Quotidiano
È ovvio, esistono film che dimentichiamo in fretta, altri che finiscono nel pentolone sempre più ampio della mediocrità assoluta. Ci sono poi quelli oggettivamente inconsistenti e altri ancora involontariamente brutti. Infine, per fortuna, esistono capolavori che non solo riempiono le pagine di qualsiasi manuale di storia del cinema, ma si attaccano allo stesso modo alle pareti del nostro cervello e non vanno più via, continuando a vivere nella nostra memoria, così come in quella collettiva, perché privi di una presunta data di scadenza. Quelli che potremmo definire capolavori senza tempo non sono così tanti, come invece buona parte del pubblico ma anche una schiera sempre più ampia di critici vorrebbero farci credere.
In passato si sperimentava di più, e questo è altrettanto ovvio: si osava maggiormente, perché la fervida immaginazione di autori e registi trovava grande considerazione tanto nelle produzioni di massa quanto in quella di un pubblico felice e spesso propenso a saggiare qualcosa di nuovo. Accadeva, dunque, che i linguaggi cinematografici si andavano perfezionando sull’onda lunga di una continua indagine artistica, apparentemente inesauribile, padroneggiata da chi questo mestiere d’artista se lo portava nel sangue. Da qui, i periodi storicizzati del cinema, sempre diversi, spesso comunicanti tra loro eppure tutti, o quasi, votati a un’evoluzione linguistica, concettuale e di forma che oggi sprofonda in una condizione ristagnante dettata dall’assenza di movimenti o di slanci significativi.
Il film che vi consigliamo oggi è Taxi Driver, firmato da Martin Scorsese, capolavoro di un cinema, corrispondente alla New Hollywood, immerso nella radicalizzazione e in un eclettismo impetuoso e rivoluzionario. Il film, restaurato in 4K, torna in sala dal 31 marzo al 2 aprile, permettendo ai fan e non solo di immergersi nelle atmosfere di Taxi Driver attraverso un’esperienza visiva e sonora senza precedenti.
Taxi Driver, di Martin Scorsese
Travis Bickle (Robert De Niro), a seguito delle atrocità vissute e sperimentate durante la guerra del Vietnam, vive uno stato di profonda alienazione nella caotica New York degli anni Settanta. Il suo malessere è inoltre esasperato da un’insonnia costante che lo tiene sveglio tutte le notti. Sfruttando la cosa a suo favore, Travis trova lavoro come tassista notturno, concedendosi durante il giorno di scrivere i propri pensieri su un diario e di frequentare i cinema per adulti. Travis ritrova una vaga speranza di adattamento alla vita sociale nella figura di Betsy (Cybill Shepherd), che lavora come impiegata nello staff elettorale del senatore Palantine (Leonard Harris).
Contemplatore notturno e silenzioso, Travis osserva attentamente dal proprio taxi lo squallore di una città sempre più degradata e votata al crimine. Non trovando sbocchi identitari significativi o vagamente piacevoli, il tassista inizia a percepirsi come una sorta di giustiziere, una sensazione che cresce ed esplode nella sua mente quando salva la vita a una giovane prostituta, Iris (Jodie Foster), tenuta sotto il controllo costante del suo protettore Matthew Higgins (Harvey Keitel). Nella mente di Travis scatta qualcosa, forse un principio di vocazione mai realmente sperimentato.
Nella testa di Travis, attraverso i suoi occhi
Nel cinema degli antieroi americani, aggiornatosi con le espressioni più radicali e rappresentative della New Hollywood, Martin Scorsese e lo sceneggiatore Paul Schrader hanno dato forma a quel Travis Bickle la cui parabola esistenzialista è perfettamente ascrivibile alle contraddizioni di un’America tormentata, il cui sogno, quello da sempre decantato, soccombe al richiamo di una violenza umana molto più antica, ancestrale.
Travis non è semplicemente un personaggio di fantasia, ma piuttosto la rappresentazione realistica e contestualizzata di un prodotto usa e getta “Made in USA”, elaborato e poi brutalmente scartato e abbandonato al proprio destino. Il destino di Travis, chiuso il capitolo Vietnam, è quello di fluttuare come un corpo estraneo in una New York profondamente diversa da quella che siamo abituati a percepire e a osservare su una qualsiasi rivista. In Taxi Driver, infatti, non assistiamo al dinamismo di una metropoli colorata, produttiva e affascinante, ma quella che ci viene mostrata è una sorta di città-inferno oppressa dalla criminalità, da un indefinibile squallore, un vero e proprio territorio di guerra illuminato al neon.
Tutto questo, e altre molteplici sfumature, è ciò che Travis osserva e contempla dai finestrini del proprio taxi notturno, ed è quello che facciamo anche noi attraverso lo schermo. Eppure, quello che ci viene mostrato viene sempre filtrato dallo sguardo del protagonista, quindi ci giunge alterato. La sua visione del mondo, infatti, è modellata attorno a una personalità senza alcuna definizione, privata di una coscienza sociale sostituita da un’altra che risponde alle logiche di una guerra appena combattuta. Questa coscienza, inespressiva e alienante, graffia e deforma la mente di Travis, marchiata con i segni evidenti e altrettanto profondi di uno smarrimento emotivo totale.
In questo senso, le sue azioni più radicali, adeguate a una percezione di realtà distorta, alterata e infine esasperata, corrispondono alla ricerca per vie altrettanto estreme di una riaffermazione personale. Prima ancora di esplodere nel sangue, però, questo riassesto psicologico, magnificamente anticipato da una progressione drammaturgica brillante e realistica, prende forma su una caratterizzazione altrettanto intelligente, quella che ci mostra sia il contesto, in cui dominano le famigerate maschere sociali, sia la condizione di Travis, sottomessa a una rabbia crescente e alla disillusione più totale.
Ci appare superfluo sottolinearlo, ma questa definizione psicologica sposa appieno l’inesauribile contemporaneità di un film uscito nel lontano 1976 e attualissimo anche oggi per i temi proposti. Questi, però, sono stati e continuano a essere ingiustamente travisati da qualcuno, filtrati da una visione che vedrebbe nel personaggio di Travis una sorta di eroe di strada anticonformista, antisistema, le cui azioni giustificano il suo essere una vittima sociale. Lo abbiamo visto, si tratta naturalmente di una lettura errata, superficiale e pretestuosa, forse anche figlia di alcuni sentimenti che potremmo definire inquietantemente affini a quelli del protagonista stesso.