
La locandina, il consiglio cinematografico di oggi: The Last of Us - Stagione 1 - Blitz Quotidiano
Provate a immaginare due persone che dialogano su un argomento che le appassiona entrambe. Tutto molto bello, ma togliamo loro il vantaggio di poter parlare la stessa lingua. Forse riuscirebbero a capirsi lo stesso, ma afferrare faticosamente i contenuti non è la stessa cosa che approfondirli appassionatamente. Ora trasformiamo quelle due persone in qualcosa di più specifico, come i linguaggi artistici corrispondenti al mondo del cinema e a quello dei videogiochi. La storia ci insegna, gli esempi anche recenti si sprecano, che questi due universi si sono ritrovati più volte a dover fare i conti con un cortocircuito linguistico nel tentativo di dialogare tra loro. Spesso, infatti, si è andati incontro a risultati scadenti, segnati dalla perdita o, peggio ancora, dalla deformazione di quei contenuti fondamentali che invece dovrebbero essere adattati fedelmente.
Il cinema ha cercato tante volte di insinuarsi nei territori di quelle storie da videogioco provando a replicarne il successo sul grande schermo. Allo stesso modo, anche i videogiochi hanno tratto ispirazione dalle narrazioni cinematografiche. Due linguaggi differenti che tentano faticosamente di parlarsi e che forse un giorno riusciranno anche a capirsi appieno. Oggi, però, la realtà è ben diversa e anche nel mondo delle contaminazioni reciproche, spesso forzate, questo giochino non sembra ancora funzionare come dovrebbe.
Ci sono però delle eccezioni, nate da una consapevolezza autoriale maggiormente votata a una scelta accurata del materiale di partenza, che non snaturi troppo il linguaggio dei videogiochi e soprattutto quello del cinema. Purtroppo, questo è invece quello che è accaduto nel recente Borderlands o nel film su Super Mario. Nella testa di chi ha realizzato la pellicola c’era l’idea, evidentemente vaga, di poter tradurre per immagini cinematografiche il capolavoro platform che tutti conosciamo. Si è invece rivelato, come troppo spesso accade, un giocattolone commerciale vuoto e superficiale, che con i linguaggi del cinema non ha nulla a che vedere.
Licenza di sproloquio, utile però a introdurre una tra le più affascinanti eccezioni alla regola, quella prima stagione di The Last of Us che non solo alimenta la speranza di poter assistere a una seconda di pari livello, in uscita il 14 aprile, ma che più in generale ci lascia fiduciosi nella buona riuscita di progetti simili in futuro. Oggi, com’è ovvio, vi consigliamo la prima stagione di The Last of Us, tratta dall’omonimo videogioco sviluppato da Naughty Dog.
The Last of Us – Stagione 1
In un mondo post-apocalittico, originatosi dalla distruzione della civiltà moderna a causa di un fungo parassita che infetta gli esseri umani e li trasforma in creature mostruose, Joel (Pedro Pascal) si ritrova a dover sopravvivere contando sulla propria resistenza fisica e mentale. L’uomo, però, deve anche convivere con i traumi e i fallimenti del suo passato. Tuttavia, le cose sembrano cambiare quando Joel incontra Ellie (Bella Ramsey), una ragazza orfana di 14 anni che pare essere immune all’infezione dilagante. I due si ritroveranno a percorre un’America desolante e martoriata, brutale e crudele, ma con la crescente consapevolezza di poter sempre fare affidamento l’uno sull’altra.
La prima stagione di The Last of Us, ideata da Craig Mazin e Neil Druckmann, risulta particolarmente riuscita per diversi motivi, molti dei quali in costante dialogo con i punti di forza (tanti) del videogioco da cui è tratta. Pur riproducendo quasi tutte le vicende proposte nel videogioco, con il rischio altissimo di adattare goffamente tanto materiale schematizzandolo e quindi sminuendone la forza espressiva, gli autori della serie sono riusciti nella rara impresa non solo di esaltare tutti gli eventi, ma di espanderli percorrendo la felice via del linguaggio cinematografico.
Questa caratteristica, centrale per la riuscita della serie, fa di The Last of Us un corpus narrativo compatto nelle nove puntate proposte, intrecciate l’una all’altra senza che nessuna, o quasi, risulti slegata o fastidiosamente inserita come riempitivo. L’unica puntata che sfugge a questa logica è la terza (“Molto, molto tempo”) ma anche qui il gioco proposto dagli autori è quello efficace della dilatazione dei punti di vista, tramite la quale si ha il beneficio di poter osservare il mondo post-apocalittico della serie attraverso lo sguardo, la percezione e i sentimenti di altre persone.
La critica più frequente alla serie è quella relativa al fatto di essersi voluti troppo affidare alla narrazione dei singoli protagonisti, riducendo al minimo indispensabile quella tensione e quel senso di minaccia provocati dalla presenza degli infetti. Va detto che in effetti la scelta degli autori è andata proprio in questa precisa direzione. A nostro avviso, però, la presunta assenza, o diminuzione della tensione, non fa parte della narrazione di The Last of Us, ma anzi si ha la sensazione che il pericolo, sempre costante, si nasconda in ogni angolo di quell’America devastata dal virus.
Quando si mostra il diretto attacco di un infetto non lo si fa per esaltare il ritmo o per giocare sulle tonalità convenzionali del divertissement, ma al contrario si rende evidente quanto questo possa realisticamente stravolgere in pochi secondi la vita dei protagonisti: ogni aggressione, infatti, risulta essere determinate ai fini della trama. Quante ne si potevano mostrare? A nostro avviso poche ma tutte indiscutibilmente decisive.
Da sottolineare, poi, l’eccellente lavoro di casting, che ha reso possibile un’alchimia, quella tra Pedro Pascal e Bella Ramsey, estremamente convincente, soprattutto in quello che è l’affiatamento emotivo volto a esprimere il gioco dei contrasti così come quello delle più profonde ed esperienziali comprensioni reciproche.