Juliette Binoche, una delle attrici francesi più famose e talentuose del cinema, presiederà la giuria della 78ª edizione del Festival di Cannes, che si svolgerà dal 13 al 24 maggio. La notizia è stata annunciata direttamente dagli organizzatori tramite un comunicato stampa. L’attrice, vincitrice a Cannes nel 2010 per la sua interpretazione nel film Copia conforme di Abbas Kiarostami, prenderà il posto della regista Greta Gerwig, che ha presieduto lo scorso anno.
La scelta di includere la pluripremiata Juliette Binoche nella giuria di uno dei più importanti festival cinematografici del mondo appare estremamente adeguata, dato il livello dell’attrice stessa. Nel corso della sua carriera, Juliette Binoche ha dato prova della sua indiscussa abilità attoriale in più occasioni, dimostrando assoluta versatilità e nello specifico una naturale attitudine al cinema drammatico. Impossibile non citare alcune delle sue interpretazioni più rappresentative in film come L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988), Il danno (1992), Il paziente inglese (1996), Chocolat (2000), il già citato Copia conforme (2010), Le Voyage du ballon rouge (2007) e Gli amanti del Pont-Neuf (1991). Oggi, però, vi parliamo di un film in cui l’attrice, assorbita da una narrazione eccezionale, regala una delle sue interpretazioni più suggestive ed emotivamente coinvolgenti di tutta la sua carriera: vi consigliamo Tre colori – Film blu, di Krzysztof Kieślowski.
Tre colori – Film blu, di Krzysztof Kieślowski
Julie (Juliette Binoche), a causa di un incidente stradale, perde suo marito Patrice, un famoso compositore, e la figlia piccola Anna. Dopo essersi ripresa, la donna decide di voler voltare pagina. Si trasferisce così a Parigi per iniziare una nuova vita, più indipendente e che vorrebbe vivere nell’anonimato più assoluto, lasciandosi alle spalle quello che aveva prima. Eppure, fare tabula rasa di tutto non è una cosa semplice, soprattutto quando alcune persone vorrebbero che Julie tornasse alla sua vecchia vita. È il caso di una giornalista, la quale sospetta che la donna sia la vera autrice delle musiche del marito, e di Olivier (Benoît Régent), l’assistente di Patrice innamorato da sempre di Julie. L’uomo vorrebbe completare la scrittura del concerto per l’Europa che il compositore aveva lasciato incompiuta. Per farlo, però, avrà bisogno di Julie. La donna si ritrova così a confrontarsi con il proprio passato, che minaccia la sua ricerca di libertà.
Il potere drammatico delle immagini
Due anni dopo il suo ultimo film, La doppia vita di Veronica, e dopo aver realizzato la meravigliosa e mastodontica raccolta di dieci mediometraggi per la televisione che compongono il Decalogo, Krzysztof Kieślowski realizza il primo capitolo di una trilogia che il regista polacco dedica ai tre colori della bandiera francese e al loro significato (liberté, égalité e fraternité).
Partendo da questo concetto, Kieślowski si allontana completamente da ogni implicazione politica legata al senso della libertà, abbracciando invece una dimensione narrativa strettamente connessa al singolo individuo, in questo caso alla protagonista Julie. Con Krysztof Piesiewicz, lo sceneggiatore che lo accompagna in tutte le sue avventure narrative, il regista realizza una delle sue opere più rappresentative, un manifesto di quello che il suo cinema riproduce e trasmette, attraverso la sua caratteristica più indiscutibilmente preziosa che è quella di beneficiare della propria sensibilità artistica servendosi dell’immagine pura, del suo senso, della sua infinita pluralità espressiva.
Kubrick, parlando del cinema del regista polacco, sottolineò la rarissima capacità di drammatizzare le idee piuttosto che raccontarle solamente. Infine, affermò: “Piesiewicz e Kieślowski fanno questo con tale abbagliante abilità che non riesci a percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e a materializzarli, prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore”. La definizione di Kubrick, neanche a dirlo, appare davvero impeccabile, magistrale nella scelta delle parole, che racchiudono buona parte dell’intensità drammatica delle opere di Kieślowski. Nel dettaglio, le parole del regista americano rimandano a quella buona regola che la drammaturgia moderna ha tradotto con l’espressione “show, don’t tell”, un principio che il cinema di oggi pare aver volontariamente smarrito, in una sorta di harakiri nella metodologia narrativa conforme al pubblico di riferimento.
Julie e la ricerca della sua libertà
Sovrastando i principi sociali, quelli che più si ricollegano alla dimensione politica e culturale, il regista polacco punta dritto alla sensibilità dello spettatore, svestendo la propria narrazione di tutti quegli elementi accessori propri delle più comuni sovrastrutture, dedicandosi invece all’interpretazione individuale. E di interpretazioni il Film blu può averne davvero molte, data la natura sfaccettata della protagonista. Il groviglio emotivo che avvolge Julie, articolato allo stesso modo in un labirintico intreccio di simbolismi, scandisce passo dopo passo la sua storia e la volontà più o meno conscia di volersi liberare, di perdersi per ritrovarsi, di sbarazzarsi del vecchio per appropiarsi del nuovo, gentilmente e con discreto silenzio. Lo stesso silenzio che la stringe con spietata delicatezza e all’interno del quale non vive alcun tipo di pianto. Nella ricerca della propria libertà, Julie fa i conti con la disgregazione del proprio io, attraverso una riaffermazione intenzionale dalla quale però emergono i suoi tratti assoluti e congeniti, qualcosa che in fin dei conti non si può abbandonare in una soffitta.