Mameli parla a raffica con l’accento dell’ultima generazione di romani, nei panni di Nino Bixio c’è un calabrese, Garibaldi lo interpreta un genovese che però fai fatica a identificare. La serie di quattro puntate che la Rai ha dedicato a questo eroe della nostra storia, lodevole per il fatto di rievocare un personaggio tanto nominato quanto sconosciuto, nell’insieme non mi è piaciuto.
Mi conforta la stroncatura che ne ha fatto Aldo Grasso sul Corriere della Sera. “Una storia del tutto piena di retorica e soprattutto una storia molto inventata perché del figura storica si sa poco e il racconto è pieno di fantasia; è un Goffredo Mameli che sembra più una rockstar che un personaggio del Risorgimento. È l’eterna storia di tutte le storie italiane: inizia in tragedia e finisce in farsa”.
Non riesco a mettere da parte il dubbio che attraverso Goffredo Mameli si voglia santificare il partito di maggioranza relativa oggi al governo. Fratelli d’Italia si chiama il partito, Fratelli d’Italia invoca l’inno nazionale, il cui testo fu scritto da Mameli e musicato da Michele Novaro, entrambi genovesi (mentre mi pare che il musicista della fiction parli con accento torinese: emigrò nella capitale sabauda nel 1847, anno in cui mise in note i versi di Mameli) troppo poco per assumerne la cadenza. L’accento genovese, la cocina, è ben difficile a perdere. Sentite parlare i Ricchi e Poveri e ve ne rendete conto. Da quarant’anni vivo a Roma ma che sono genovese si sente ancora.
Si tenga presente che il cuore pulsante del Risorgimento fu proprio Genova. Mazzini era genovese (la mia scuola media, in via Lomellini, era proprio dirimpetto alla sua csa natale), Garibaldi, nato a Nizza, era di discendenza genovese e parlava in genovese. Cavour, quando volle imparare l’arte del business, andò a Genova, da certi suoi amici in San Siro. Genova e Piemonte erano le uniche porzioni d’Italia non ridotte a colonia. Da Genova, dal Piemonte, dalla Padania in treno e Brignole e poi a piedi fino a Quarto venne gran parte dei Mille. Poi c’era Francesco Crispi siciliano con signora savoiarda vestita da donna.
In una ricostruzione storica non basta usare i saloni degli antichi palazzi di via Garibaldi-via Nuova con balli in similgattopardo per stare nel giusto. Anche come parla la gente è importante.
La cosa più sgradevole della fiction su Mameli è proprio il modo di parlare di attori e attrici giovani, a raffica, di cui poco è con fatica si riesce a capire.
In epoca di color blind (avete presente lo Bridgerton su Netflix?) non fa molta differenza la città di nascita dell’interprete. Ma un conto è una fiction di fantasia un conto è una ricostruzione più o meno storica.
La guerra del 1848, la prima guerra di Indipendenza, non fu una apoteosi di eroismo, fu un disastro per la classe militare piemontese (come sempre nei 100 anni successivi, il Piave fu un moto di popolo mentre i generali erano confusi e distratti): non ne hanno vinto una, solo Garibaldi vinceva e per questo cercarono di mandarlo a morire. Leggete Denis Mack Smith per una storia senza retorica patriottarda).
C’è uno sprazzo di verità che prende in una scena che ricorda la bravura di Garibaldi guerrigliero e guerriero. Quella in cui i giovani difensori del Vascello, villa sul Gianicolo, respingono un assalto dei francesi. Le memorie del tempo ricordano come Garibaldi tenne bloccati i francesi per due mesi con una serie di attacchi e contrattacchi.
Fu in una di queste scaramucce che Mameli fu ferito, per morirne in conseguenza. I medici dell’epoca erano quello che erano, gli stessi che fecero morire Cavour citandogli la malaria con purghe e salassi invece che col chinino.
Non c’è dubbio che per un foresto e forse anche per tanti genovesi di oggi le mie considerazioni sono risibili, quel che conta è l’emozione dei 30 mila che cantano Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta (parallelo con l’inno di Garibaldi: Si scopron le tombe si levano i morti, o con l’Adelchi di Manzoni: Un volgo disperso repente si desta / Intende l’orecchio, solleva la testa/ Percosso da novo crescente romor). Quel che conta è il clangore delle battaglie, le urla l’eroismo dei patrioti.
Nell’insieme però il tono è esagerato. Certo erano quelli tempi di sovraeccitazione patriottica ma l’eccesso di concitazione disturba. E gli attori recitano come quasi tutti gli attori italiani, male.
Guardate la serie turca su Solimano il magnifico e vi rendete conto della differenza e della sua marginalità del cinema italiano (che se poi vogliamo proprio vedere a fare grandi all’estero i nostri registi sono stati i bravissimi direttori della fotografia: gli americani non capivano l’italiano e le didascalie e restavano colpiti dalle immagini che coprivano l’inconsistenza di trama e dialoghi).
Nino Bixio calabrese proprio non mi va giù. Il suo stesso cognome è quintessenziale genovese: la X non si pronuncia cs come in Craxi ma sg come in baxo, cioè bacio. Sono sicuro che quando Garibaldi gli disse la storica frase, “Bixio, qui si fa l’Italia o si muore”, parlò in dialetto: “Bixio, chi o se fa l’Italia o se moee”. La scelta sarà dipesa dal fatto che il produttore, Agostino Sacca, è calabrese anche lui? Ultima rottura: Repubblica ha rivelato che nel cast di Mameli c’era anche lo spazzino di Roma che tre donne accusano di stupro e è in attesa di sentenza, immortalato come comparsa nella fiction.
Leggo recensioni tutte encomiastiche. Forse sono io fuori dei tempo. Ma il mio animo di genovese della diaspora è in tumulto. E mi domando: possibile che a Genova nessuno lo abbia notato?