Giampaolo Pansa: “La borghesia rossa”, estratto dal libro “Sangue Sesso Soldi”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 7 Settembre 2013 - 07:37| Aggiornato il 26 Febbraio 2015 OLTRE 6 MESI FA
Giampaolo Pansa: "La borghesia rossa", estratto dal libro "Sangue Sesso Soldi" (LaPresse)

Giampaolo Pansa: “La borghesia rossa”, estratto dal libro “Sangue Sesso Soldi” (LaPresse)

ROMA – Giampaolo Pansa ha pubblicato per Rizzoli “Sangue Sesso Soldi“, un libro in cui il giornalista ripercorre la storia d’Italia dal 1946 al 2013. Il Giornale ne ha pubblicato un bran0, tratto dal capitolo “Borghesia rossa. 1976”, in cui Pansa parla di come la borghesia e i giornali di sinistra “si raccontarono” gli anni di Piombo:

“In quel tempo [1976, ndr ] stavano muovendo i primi passi le bande del terrori­smo di sinistra, le Br con la stella a cinque punte. Era facile intuire chi fossero e dove ci avreb­bero portato. Eppure la borghe­sia progressista rifiutava di pren­dere atto dell’esistenza di un in­ferno che stava nascendo sotto i suoi occhi. Fu un esempio clamo­roso di negazionismo che creb­be giorno per giorno, grazie a una serie di errori compiuti sen­za batter ciglio. Il primo fu di pensare che non esistesse nessun clandestino ar­mato. Le Brigate rosse erano sol­tanto gruppu­scoli fascisti, travestiti da proletari co­munisti. In se­guito si comin­ciò a dire che si trattava di pro­vocatori messi in campo dal­l’estrema de­stra. Vennero di moda eti­chette ipocri­te. Le sedicen­ti Brigate ros­se, le fantoma­tiche Br. Gui­date da un tipo equivoco, un certo Renato Curcio, alleva­to nei campi paramilitari di Ordine nero. Quando risul­tò impossibile negare la real­tà, venne inventata una formula nebbiogena: sono compagni che sbagliano.

Chi lavorava come me in gior­nali senza paraocchi, e La Stam­pa diretta da Ronchey era uno di questi, s’imbatteva di continuo in menzogne che lasciavano stu­pefatti. Soprattutto perché veni­vano da ambienti professionali in qualche modo espressione della borghesia intellettuale. Nel novembre 1969, in via Larga a Mi­lano, quando l’agente Annarum­ma era morto trafitto da un tubo d’acciaio, lanciato contro la ca­mionetta che pilotava, molti so­stennero che si era ammazzato da solo. Compiendo una mano­vra errata con il gippone. L’atten­tato di piazza Fontana fu subito attribuito alla destra, cancellan­do tutti i misteri attorno alla stra­ge. La fine oscura dell’anarchico Giuseppe Pinelli venne addossa­ta al commissario Luigi Calabre­si, destinato a morire assassina­to per una colpa che non aveva commesso. Nel marzo 1972, quando l’editore Feltrinelli morì sul traliccio che tentava di far sal­tare, ebbe inizio una sarabanda bugiarda che mirava ad accredi­tare una sola versione: il compa­gno Osvaldo era stato ucciso da qualche servizio di sicurezza.

Soltanto poche testate sfuggi­rono a questa giostra di bugie. Non certo i giornali di sinistra, co­me l’Unità e Paese sera. Anche il Corriere d’informazione, l’edizio­ne pomeridiana del Corriere del­la Sera , sostenne che l’editore era stato eliminato da agenti se­greti. L’avevano rapito, portato in un rifugio clandestino, narco­tizzato, con­dotto ai piedi del traliccio e poi finito. In quei giorni si teneva a Milano il congres­so nazionale del Pci. E neppure Enri­co Berlinguer, il vice di Luigi Longo, si trat­tenne dall’accennare a uno sfondo oscuro del delitto. Dalla tribuna disse: «Le spiegazioni che vengono date non sono credibili. È pesante il so­spetto di una spaventosa messa in scena».

Il caso Feltrinelli rivelò che la borghesia rossa era anche cieca e sorda. Si rifiutò di accettare per­sino la rivendicazione di Potere operaio. Il giornale dei Potop uscì con un titolo di prima pagi­na che diceva: Un rivoluzionario è caduto . Nel necrologio si legge­va che l’editore aveva dato la vita «nella guerra di liberazione dallo sfruttamento».

Sette anni do­po, nel corso del processo Gap- Feltri­nelli- Briga­te rosse, in un do­cumento let­to in aula prima della sentenza, i brigatisti imputati rivelarono che cosa fosse accadu­to all’editore: «Il compagno Osvaldo era impegnato in un’azione di sabotaggio ai tralic­ci dell’alta tensione. Voleva pro­vocare un black- out in una vasta zona di Milano, per garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi».

Il comunicato proseguiva co­sì: «Ma il compagno Osvaldo ave­va commesso un errore tecnico. Era la scelta e l’utilizzo di orologi dalla bassa affidabilità se trasfor­mati in timer. In questo modo aveva sottovalutato gli inconve­nienti di sicurezza. Determinan­do l’inciden­te mortale e il conse­guente fallimento di tutta l’opera­zione».

La borghesia rossa non tenne conto neppure delle spiegazioni fornite dai brigatisti. Nel frattem­po continuava a dare la caccia ai fantasmi. Seguendo un percorso che nessuno aveva deciso, ma in grado di condurre migliaia di per­sone allo stesso punto d’arrivo: le Brigate rosse non esistevano. Il guaio è che si trattava quasi sem­pre di eccellenze in grado di fare opinione nei loro ambienti: do­centi universitari, scrittori famo­si, politici, intellettuali e natural­mente giornalisti.

L’esistenza di questo fronte ne­gazionista l’avevo già constatato nell’aprile 1974 durante il seque­st­ro del sostituto procuratore Ma­rio Sossi, rapito a Genova dalle Brigate rosse e tenuto in ostaggio per un mese. Era il primo seque­stro di lunga durata attuato dai brigatisti e in seguito apparve la prova generale del rapimento di Aldo Moro.

In quell’epoca lavoravo per il Corriere della Sera guidato daPie­ro Ottone e venni mandato a Ge­nova per raccontare gli sviluppi del sequestro. Rimasi sul posto per più di un mese e mi resi conto di come si muoveva la borghesia di sinistra. Non voleva accettare la verità, ossia che si trattava di un’operazione di puro terrori­smo rosso. Diretta a obbligare lo Stato, rappresentato dalla magi­stratura genovese, a rimettere in libertà un gruppo ribelle che ave­vo descritto tre anni prima sulla Stampa, chiamandoli i tupama­ros di Genova.

Quella mia inchiesta non era piaciuta per niente al Pci e mi ave­va meritato i rimproveri dell’ Uni­tà . Il giornale comunista sostene­va c­he non si trattava di una ban­da politica, ma soltanto di crimi­nali comuni. E non contava nulla che si ispirassero al terrorismo sudamericano e agli scritti di Car­los Marighella, un terrorista bra­siliano ucciso dalla polizia in un’imboscata nel novembre 1969.

Marighella aveva sfornato un Piccolo manuale della guerriglia urbana. La traduzione italiana era stata trovata a Genova duran­te le indagini su una banda rossa, la XXII Ottobre, ritenuta colpevo­le di rapine e di almeno un seque­stro di persona: il rampollo di una ricca famiglia genovese. Nel testo si leggeva: «La guerriglia ur­bana è­soltanto un momento del­la lotta rivoluzionaria, è solo il pri­mo passo verso l’organizzazione della guerriglia di campagna, quella dei contadini, e poi di un esercito di liberazione nazionale che abbatterà la dittatura del ca­pitalismo ». Ma le sinistre erano cocciute. Continuarono a pensare che quelli della XXII Ottobre fossero volgari delinquenti e nient’altro. Soltanto l’inviato del quotidiano della Fiat, ovvero il sottoscritto, aveva fatto “la scoperta”fantasio­sa di ritenerli terroristi politici”.