La Païva. Una prostituta a Parigi, celebrity dell’Ottocento

La Païva. Una prostituta a Parigi, celebrity dell'Ottocento
La Païva. Una prostituta a Parigi, celebrity dell’Ottocento

ROMA – Riesumando le gesta e l’irresistibile ascesa nella Parigi del XIX secolo di Esther Lachmann, in arte La Païva, prostituta e arrampicatrice sociale indefessa, si può forse togliersi qualche pregiudizio consolatorio a proposito del celebrity system dei nostri giorni.

Lo ha fatto Jason Farago con una bella storia pubblicata sul sito della Bbc. Oggi che domina rotocalchi e social network un personaggio famoso per essere famoso come Kim Kardashian, ci sorprendiamo nostalgici di un’epoca – mai esistita – in cui la celebrità era appannaggio di persone dotate di un sicuro qualsivoglia talento o potere.

La Païva, arrivata diciottenne a Parigi da un ghetto moscovita armata di nulla se non un grazioso portamento e un’ambizione sconfinata, da peripatetica spiantata assurse a simbolo e vedette di un’epoca, quella del II° Impero del nipote di Napoleone, in cui le nuove ricchezze industriali e i profitti delle colonie, avevano rotto gli argini delle convenzioni.

Nei grandi boulevard progettati dal barone di Hausmann, nobili e borghesi, vecchi dignitari e nouveaux riches facevano festa insieme. E frequentavano gli stessi bordelli. Di cui Esther, poi Therese, quindi Blanche, infine La Païva (dal cognome di un nobile portoghese che per lei perse la testa) fu la regina incontrastata, sebbene non di una bellezza fulgida (è descritta infatti come sinuosa, fianchi larghi, pallida, pettoruta, una “belle-laide”, una brutta che piace diremmo).

Ci sapeva fare, tuttavia, era tempista. Nel 1841, sola e senza soldi, a 22 anni si sposta a Londra dove già la prima sera si fa accompagnare da un barone locale: il portoghese invece le offrirà lo status cui aspirava, cortigiana a stipendio e biglietto d’ingresso nel demi-monde parigino dove poteva essere ammirata – e concupita – da Napoleone III in giù, Flaubert e Zola compresi.

L’ha congedato con un biglietto: “Tu torni in Portogallo, io devo rimanere a fare la puttana”. Il suicidio conseguente dello spasimante abbandonato è puro ottocento sentimentale.

All’apice del successo – stavolta è un nobile prussiano con più titoli dello stesso imperatore – il conte Guido Henckel von Donnersmarck le regala un meraviglioso hotel particulier al 25 degli Champs Elyséee. Quando cadrà in disgrazia, dopo la Comune, sarà proprio la relazione col tedesco a rovinarla (per modo di dire, si ritirerà in una magione della Slesia): “puttana ebrea” e filo-tedesca, troppo per il neo puritanesimo francese sciovinista post-guerra persa con la Prussia.

Ma quell’appartamento, quel salotto in onice gialla che più kitsch non si può (oggi c’è un club privato) fu davvero l’epitome iconografica degli anni ruggenti del II° Impero. I più pettegoli – e informati – di Parigi, i fratelli Goncourt, sul Journal potevano definire l’appartamento un “Louvre de cul”. Durante i lavori, Dumas figlio annotava: “E’ quasi finito. Manca solo il marciapiede…”.

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