ROMA – La prostituzione vista da sinistra con un occhio intelligente: in un articolo di Giulia Garofalo Geymonat pubblicato da Micromega c’è un tentativo di adattare la prostituzione alla realtà di oggi, con un pragmatismo e un equilibrio rari, anche se sempre stretto nelle stecche dell’ideologia. La stessa Giulia Garofalo Geymonat aveva affrontato il tema, sempre su Micromega, nel maggio del 2014 e sempre Micromega, spinta dalla irrequietezza di Paolo Flores d’Arcais, ha trattato altre volte di prostituzione e porno, arrivando a dare dignità di maitre (e non maitresse) à penser a Valentina Nappi e a Rocco Siffredi, ricorrendo anche alla prestigiosa firma di Maria Latella.
Nel primo numero del 2015 Micromega affronta la spinosa questione:
“La prostituzione tra abolizionismo, proibizionismo e legalizzazione”
è il titolo del lungo, elaborato, documentato e argomentato articolo di Giulia Garofalo Geymonat. Il tentativo è ambizioso, mettere a confronto l’approccio seguito in Italia (abolizionismo da legge Merlin, che è del 1958) e nel mondo nel multiformerapporto con la prostituzione: lotta, controllo, gestione, repressione.
Quello che manca a Giulia Garofalo Geymonat, o glielo impedisce lo steccato ideologico, è la constatazione del fallimento del modello proibizionista. Ha chiuso i bordelli di Stato e li ha sostituiti col marciapiede: quelli saranno stati immorali, ma il marciapiede è un pezzo di inferno. Questo si ottiene quando il moralismo guida la politica. Tenuto conto che, stando ai numeri della stessa Giulia Garofalo Geymonat, il fenomeno delle “donne da strada” riguarda da un quarto a metà delle prostitute in Italia. E le altre? non aspettano né la Merlin né le assistenti social, si organizzano, come si sono organizzate sempre. L’iniziativa privata non conosce limiti. Si veda il romanzo Rosemarie di Eric Kuby, da cui nel 1958 fu tratto il film con Nadia Tiller. Era l’inizio del boom tedesco, e la Germania, coetanea dell’Italia come Stato unitario, è avanti ormai di decenni, da mille anni a questa parte. Scrive Giulia Garofalo Geymonat che
“i possibili approcci legislativi al fenomeno della prostituzione sono ancora oggi, in Europa e nel mondo, molto diversificati”. In Italia, “l’abolizionismo che ispira la nostra legge Merlin, differisce ad esempio dall’approccio neoproibizionista che considera responsabili penalmente i clienti ma non le prostitute, in vigore in Svezia e in dirittura d’arrivo in Francia. D’altro lato c’è l’esperienza di Olanda e Germania, che hanno scelto nuove forme di legalizzazione, mentre in Nuova Zelanda è in corso da qualche anno un interessante esperimento di decriminalizzazione”.
Il confronto è fra queste posizioni:
1. abolizionista puro, tipo Italia;
2. nuovo proibizionismo che punisce i clienti (Svezia 1999);
3. nuova legalizzazione e dei diritti per chi lavora (sex workers, lavoratrici e lavoratori del sesso), (Olanda 2000, Germania 2002);
4. la strada della Nuova Zelanda (2003).
In Italia da anni si parla di una firma della legge sulla prostituzione, la legge Merlin, con disegni di legge da parlamentari di destra e di sinistra e anche referendum abrogativi. Ma, constata Giulia Garofalo Geymonat,
“nessuno dei grandi partiti italiani ha una posizione chiara sul da farsi e, ciò che è più sorprendente, nessuna delle proposte è stata mai neppure discussa in parlamento dal lontano 1958, anno dell’approvazione della legge Merlin”. Nel frattempo, dalla metà degli anni Novanta, nel resto d’Europa e in molti paesi del mondo si è levata una grande onda di riforme. Entro il 2014 Francia e Canada, due paesi che hanno una legge simile alla Merlin, dunque
Nota storica:
“L’abolizionismo si riferisce originariamente all’abolizione dei regolamenti statali punitivi largamente diffusi nell’Ottocento, in Italia nella forma delle «case chiuse». Esso fu inventato su forte influsso delle suffragette, e introdotto per la prima volta in Inghilterra nel 1866. Un tempo, quello della prima onda femminista, pieno di speranze, come del resto la fine degli anni Cinquanta in Italia. L’abolizionismo era senz’altro basato sull’aspettativa che un giorno non troppo lontano la prostituzione sarebbe sparita, grazie al progresso dei diritti delle donne e delle classi popolari, alla crescita e alla distribuzione della ricchezza, ai mutamenti nel modo di vivere e pensare la sessualità”.
Un po’ di amara realtà:
“La storia non è andata proprio così. La prostituzione in Europa, e non solo in Europa, è al giorno d’oggi un’industria molto florida, diversificata e, quel che è più preoccupante, lo sfruttamento, la discriminazione e la violenza contro chi vende sesso persistono”.
Il “mercato” della prostituzione. La domanda:
“In Italia, per i clienti, si parla di cifre fra i 2,5 e i 9 milioni, il che rappresenta circa un terzo degli uomini adulti. […] Nei diversi paesi europei la percentuale di uomini adulti che comprano sesso oscilla fra il 10 e il 45 per cento, e quindi con un calcolo molto approssimativo si arriva a una cifra dell’ordine di 40 milioni di clienti per l’Europa nel suo insieme”.
Il “mercato” della prostituzione. L’offerta:
“Le stime sul numero di sex workers in Europa si aggirano invece sugli 1-2 milioni, e per l’Italia sui 50-100 mila, di cui 25 mila lavorerebbero in strada. Le persone straniere, diventate significative nel settore soprattutto a partire dagli anni Novanta, rappresentano oggi la quasi totalità di chi vende sesso nelle strade italiane, e una buona parte di chi vende indoor, in hotel, appartamenti, locali o presso i propri clienti.
“Fra le sex workers sono rappresentati molti percorsi di vita e molte fasce sociali. Infatti, nonostante le condizioni difficili, spesso impreviste, e non necessariamente ben pagate, la prostituzione rappresenta ancora oggi per molte donne, persone trans, ma anche uomini migranti e queer (cioè non pienamente identificati con l’eterosessualità), soprattutto giovani, la via più veloce per affrontare una situazione improvvisa, come la perdita del lavoro, la malattia, la morte o la separazione, oppure per realizzare i propri progetti, come gli studi universitari, mantenere genitori, figli o fratelli, o per pagare i propri debiti, magari contratti per emigrare in un paese più ricco.
“Non esiste ancora paese, in Europa o altrove, in cui le sex workers non siano sottoposte a forme di discriminazione, violenza e stigmatizzazione”. i tratta quindi di un campo tutto da migliorare, e di una ricerca di giustizia in pieno sviluppo.
“Davanti a queste realtà, diventa difficile ripensare le politiche sulla prostituzione e la tratta senza ripensare anche gli interventi sulla disuguaglianza globale, il welfare e la migrazione. Un esempio di successo in questo senso è una delle leggi italiane contro la tratta, l’articolo 18 della legge 40/1998 sull’immigrazione, che è discussa in tutto il mondo come esempio di buona pratica. Grazie all’articolo 18, dal 2000, ogni anno circa mille vittime sono riuscite a emanciparsi, e la maggior parte di loro ha deciso di denunciare i propri sfruttatori, cosa molto rara in altri paesi. L’originalità del modello italiano è che incentiva le vittime a collaborare con le autorità attraverso un programma di protezione sociale (casa rifugio, servizi medici e così via), al termine del quale le vittime non vengono semplicemente rimpatriate, come succede negli altri paesi, ma invece possono accedere a un permesso di soggiorno convertibile in permesso di lavoro o studio”.
Sarebbe interessante andare a vedere cosa fanno poi quelle donne, una volta ottenuto il permesso di soggiorno. Davanti all’alternativa fra lavori di pulizia a poche centinaia di euro e il soldo facile della prostituzione, resiste o crolla l’originalità italiana? Certo, con la denuncia saranno incriminati i prosseneti, ma con le leggi vigenti e quelle future, manca solo che lo Stato gli dia una medaglia, con ulteriore fatica per i poliziotti.
L’articolo sviluppa l’analisi del
“modello prostituzionale che abbiamo ereditato dalla legge Merlin, e quali sono le possibile vie di riforma già percorse da altri.
“L’idea di base dell’abolizionismo, e dunque della Merlin, è che le prostitute (o i prostituti, certo, che però tradizionalmente venivano ignorati dalle leggi sulla prostituzione) sono fondamentalmente vittime – a seconda dei propri valori si penserà che sono vittime degli uomini, della povertà, della criminalità, del peccato e così via. Dunque, mentre l’abolizionismo sogna implicitamente un mondo senza prostituzione, esso si preoccupa, nel frattempo, di proteggere le prostitute, di non aggiungere sofferenza nelle loro vite, insomma di non punirle. È importante ricordare fino a che punto questa sia un’affermazione tuttora molto radicale: mentre quasi tutti gli Stati europei hanno smesso di criminalizzare direttamente le prostitute in epoca illuministica, questo non è il caso nella maggior parte del mondo. Per esempio, le sex workers sono passibili di multa e arresto in Thailandia o negli Stati Uniti (con la parziale eccezione del Nevada), rischiano anni di campo di detenzione in Cina, e la pena di morte nei paesi dove vige la šarî‘a (legge islamica).
L’abolizionismo si schiera innanzitutto contro la criminalizzazione delle sex workers, e stabilisce che lo Stato deve impegnarsi da un lato contro la povertà e per l’accesso al mercato del lavoro delle giovani, e dall’altro contro lo sfruttamento da parte di terze parti che approfittano della situazione per organizzare un vero e proprio business del sesso.
Queste idee sono probabilmente ancora condivise da molti in Italia. Il problema è che, già dagli anni Ottanta, la loro applicazione ha iniziato a traballare. Con la legge Merlin ci viene detto che la prostituzione di per sé non è un atto illecito, cioè la sex worker e il cliente non sono perseguibili, mentre lo sono tutte le terze parti che si configurano come sfruttatrici. In realtà però per «prostituzione di per sé» s’intende uno scambio privato e informale, nella misura in cui rimane nascosto, non pubblicizzato, e a cui non verrà quindi offerto nessun riconoscimento o protezione contrattuale – si pensi ai casi in cui un cliente è insistente, non paga, o tenta di non usare il preservativo.
Ancora più grave è ciò che succede con la definizione delle «terze parti» sfruttatrici. Di fatto, la nostra legge ne lascia una possibilità di definizione molto allargata, che finisce per criminalizzare in modo indiretto il lavoro e la vita stessa delle sex workers. Infatti, lungi dall’essere solo manager, reclutatori e gestori, sono terze parti perseguibili dalla legge Merlin coloro che vivono con le sex workers (per esempio i loro partner), godono in altro modo del loro reddito (per esempio padroni di casa, ma anche figli maggiorenni, genitori, amici), sostengono le sex workers nel loro lavoro (ad esempio offrendo loro un passaggio in macchina), lavorano per conto loro (per esempio segretarie o buttafuori), o addirittura lavorano con loro, anche come sex workers. Quest’ultimo punto è particolarmente importante, perché impedisce alle sex workers di condividere uno spazio lavorativo.
Unito al divieto di scambiare informazioni sul lavoro sessuale (visto dalla Merlin come favoreggiamento o adescamento), questo delinea infatti una situazione in cui lo Stato indirettamente favorisce lo sfruttamento e la violenza nell’industria del sesso, non solo perché sfavorisce le forme di sindacalizzazione delle prostitute, ma perché il lavorare con altre e lo scambiarsi informazioni sui clienti rappresentano le fondamentali misure di sicurezza del settore. Unito infine al divieto di pubblicità, il divieto di condividere uno spazio lavorativo (al chiuso) apre una grande contraddizione della legge abolizionista, ovvero quella per cui l’unico spazio lecito di incontro fra clienti e sex workers resta di fatto la strada. Non deve stupire dunque che le nostre strade siano sovraffollate, né che, con il tempo, si sia sviluppata un’industria largamente controllata dalla criminalità.
Queste contraddizioni interne all’abolizionismo sono state affrontate in modi diversi. Una delle strade percorse per esempio in Francia (2003) e in Inghilterra (1985, 2009), è stata quella di iniziare ad aggiungere dei divieti, soprattutto per quanto riguarda la prostituzione di strada. Anche in Italia, sindaci di destra e di sinistra multano clienti e prostitute di strada a partire dal 2007. Tuttavia, velocemente si è capito che in reazione a questi provvedimenti, la prostituzione si riorganizza in modi più nascosti e luoghi più periferici.
Inoltre, la vulnerabilità delle sex workers cresce, il contatto con le associazioni, le colleghe, le istituzioni, la polizia diminuisce, e la selezione dei clienti, così come la contrattazione diventano necessariamente operazioni più veloci e superficiali. Tendono poi a moltiplicarsi le operazioni di polizia di tipo veloce (raid), che non favoriscono gli interventi anti-tratta, quanto piuttosto i rimpatri per clandestinità. Infine, viene meno anche il contatto dei clienti con le associazioni e le autorità, spesso utile nella segnalazione di casi di sfruttamento e tratta. Insomma, dal punto di vista della protezione delle persone più deboli, queste misure rischiano di far peggio. Come si fa dunque a usare strumenti repressivi senza rendere la vita delle prostitute ancora più difficile? Questo dilemma resta centrale anche quando si voglia sviluppare un approccio più chiaramente alternativo all’abolizionismo, nel senso di un totale divieto dell’acquisto di prostituzione, ma anche se si adottano forme di legalizzazione o decriminalizzazione.
Per legalizzazione s’intende l’accettazione dell’esistenza della prostituzione, e del riconoscimento di un suo spazio economico e sociale.
Che tipo di spazio fa però una notevole differenza. Per intenderci, c’è un abisso fra i bordelli legali che esistono oggi in Olanda e Germania e quelli dell’Italia pre-Merlin. Nonostante si faccia spesso un uso improprio del termine «casa chiusa» per indicare semplicemente «bordello», in realtà le case chiuse erano forme molto particolari di bordelli a controllo statale stretto e punitivo. Le prostitute delle case chiuse ricevevano bensì un salario, e il sistema riconosceva la prostituzione come lavoro e servizio socialmente necessario, ma la mancanza di libertà di movimento e di vita privata (normalmente, per esempio, si viveva nella casa chiusa, senza famiglia, e se ne usciva solo in modi molto controllati), oltre che di diritti del lavoro (non si poteva rifiutare un cliente per esempio), configura quella che oggi intendiamo come condizione di schiavitù.
In Germania, Olanda o Svizzera i bordelli legali sono luoghi dove, almeno sulla carta, vengono applicati e rispettati i diritti di chi lavora. Normalmente, le sex workers hanno turni di lavoro negoziabili, pagano una certa percentuale o un affitto per usare la struttura, stabiliscono i loro prezzi, mantengono, sempre in teoria, il diritto di dire no a qualunque cliente o a qualunque prestazione sessuale. Siccome i contratti di prostituzione sono riconosciuti, chi lavora, sia in proprio sia per altri, può ricorrere a polizia, tribunali e sindacati nel caso di sfruttamento, pressioni, violenze sia da parte di clienti che di webmaster, manager e così via.
I luoghi di lavoro sono sorvegliati da telecamere, buttafuori e segretarie – come nel caso delle famose vetrine olandesi – oppure, se all’aperto, da polizia e organizzazioni non governative – secondo il modello di cosiddetto zoning, applicato ad esempio nel caso dei box per macchine istituiti a Zurigo. Normalmente, sono le autorità locali a decidere in che zone permettere le attività di prostituzione, lontano da luoghi di culto e scuole, e in accordo con la popolazione locale. Le sex workers, per la prima volta nella storia, possono fare un prestito in banca, accedere alla pensione, ai sindacati, alle assicurazioni sanitarie e di disoccupazione – però si noti che il lavoro sessuale non è uno dei lavori che l’ufficio di collocamento può proporre a una persona disoccupata. Infine, in Germania e Olanda, la partecipazione delle sex workers non è registrata da nessuna autorità pubblica (sono registrati solo i luoghi); in altre parole non esiste schedatura che possa rinforzare la loro stigmatizzazione, e i controlli sanitari sono incentivati, mai imposti. Tutto il settore è sottoposto a tassazione ordinaria”.
Ben diverso è il quadro che tracciano i giornali tedeschi quando affrontano gli aspetti umanamente dolorosi del “modello tedesco”.
“Negli ultimi anni, la comunità internazionale ha iniziato a rivolgere lo sguardo al modello introdotto dalla Nuova Zelanda. La legge neozelandese riconosce infatti un ruolo decisionale centrale all’organizzazione rappresentativa delle sex workers, il New Zealand Prostitutes Collective, che esiste dal 1987 e fa parte di una crescente rete internazionale di gruppi autorganizzati, fra cui anche il Comitato dei diritti civili delle prostitute in Italia 19. La scelta è di una decriminalizzazione totale, il che significa che non esistono leggi speciali per la prostituzione, considerata dunque come ogni altro lavoro, mentre lo Stato promuove attivamente un certo tipo di sviluppo del mercato della prostituzione in favore di chi lavora. In pratica per esempio le piccole imprese autonome o cooperative sono avvantaggiate perché non hanno bisogno di licenze, permessi formali, regolamentazioni varie, che invece si applicano ai business grandi o non indipendenti. Inoltre, lo Stato investe tutte le sue energie in progetti di lotta alla violenza, alla prostituzione forzata e minorile, di prevenzione sanitaria e di uscita dalla prostituzione per chi lo desideri, nonché di negoziazione con le parti sociali, quali per esempio gli abitanti dei quartieri di prostituzione. Secondo diverse fonti 20, in Nuova Zelanda già nel 2008 le sex workers si sentivano più a loro agio nel dire no ai propri clienti e nel denunciarli in caso di abuso, e il loro potere contrattuale era aumentato, così come l’uso del preservativo. Eppure, dicono i critici, è difficile immaginare questo successo in un altro paese, perché la Nuova Zelanda, diversamente per esempio dai paesi europei, non deve fare i conti con il grave sfruttamento degli immigrati, per ragioni essenzialmente legate alla posizione geografica di grande isolamento.
Dal 1999, la Svezia considera la prostituzione come una forma di abuso sessuale maschile, secondo un tipo di critica chiamata «femminismo abolizionista». Di conseguenza vengono puniti i clienti mentre le prostitute restano, come nella legge italiana, protette in quanto vittime. I clienti sono sottoposti a processo, multati o arrestati, e devono partecipare a programmi di rieducazione alla sessualità e ai rapporti di genere. Concretamente i clienti denunciati sono stati in media 200 all’anno, con un tasso di condanna del 10 per cento, la prostituzione di strada (comunque già poca) è sparita, ma non è chiaro se sia diminuita o meno indoor – sicuramente si è fatta più discreta. Quel che è però certo è che la legge ha un forte impatto sulle mentalità, e il 71 per cento degli svedesi sostiene la criminalizzazione dei clienti. Per la prima volta nella storia c’è un chiaro spostamento di attenzione sugli uomini che comprano, mentre tradizionalmente tutta la responsabilità e la stigmatizzazione sociale e legale è toccata a chi vende sesso. L’approccio svedese è sempre più apprezzato per il suo chiaro impatto normativo ed educativo di lungo periodo: in una società che aspiri all’uguaglianza fra uomini e donne la prostituzione non è accettabile, anche se avviene fra adulti consenzienti. Così, la legge viene promossa in Europa e nel mondo, da parte della Svezia, ma anche da varie reti politiche di donne, come la European Women’s Lobby, alle quali si uniscono anche gli Stati Uniti (che però, con l’eccezione del Nevada, seguono un proibizionismo totale, che punisce cioè anche le sex workers) e, con ragioni parzialmente diverse, il Vaticano. A partire dai paesi nordici, nel 2009 la Norvegia e l’Islanda hanno seguito la Svezia – mentre Danimarca e Finlandia hanno deciso di mantenere un modello simile al nostro. Come abbiamo visto, Francia e Canada stanno considerando nel corso del 2014 proposte di legge che includono la criminalizzazione dei clienti, con risultati ancora incerti. All’inizio del 2014 sia il parlamento europeo che il Consiglio d’Europa hanno consigliato agli Stati membri l’approccio svedese.
Eppure, dal punto di vista delle realtà dell’industria del sesso, anche questo modello è molto contestato. Infatti, la prostituzione non necessariamente diminuisce, ma invece si trasforma, passando per esempio su internet, e si nasconde, allontanandosi perciò da ogni contatto con associazioni e autorità. Come far sì che la criminalizzazione dei clienti non diventi di fatto, ancora una volta, criminalizzazione delle prostitute? La questione è rilevante in Svezia, ma si fa ancora più grave quando si pensa a esportare il modello. In Svezia, l’intervento dello Stato e dei servizi sociali è molto forte, la diseguaglianza bassa, l’accesso delle donne al mercato del lavoro reale. Qualora queste condizioni non siano presenti, e in particolare se la prostituzione costituisce la risorsa economica di molte donne, o comunque la risorsa esclusiva di alcuni gruppi di donne – come succede in Italia per le donne trans e le giovani immigrate – la criminalizzazione dei clienti rischia di provocare non la contrazione dell’industria, ma piuttosto un aumento della vulnerabilità delle sex workers, che non possono ricorrere alla legge per difendersi dallo sfruttamento e dall’abuso, e si allontanano dalle associazioni e dagli ospedali. Non è chiaro in fondo se l’idea di criminalizzare i clienti rappresenti un salto in avanti, perché delinea una società in cui ogni uomo si assume la responsabilità di smettere di pagare per avere sesso, oppure un ritorno di molto all’indietro, a prima della Rivoluzione francese, verso pratiche statali di proibizionismo totale che sacrificano chi è già marginalizzato sull’altare di un’idea di un mondo migliore e senza prostituzione”.
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