Direttore di collegi: “Università le ragazze si vendono”. Su Internet e non solo

Stefano Blanco

MILANO – Andate su Google immagini e fate la ricerca “studentesse universitarie”. Clic, e guardate il risultato. Almeno i primi sei mostrano sì ragazze, forse universitarie, sicuramente non in posa da studentesse. Non libri, niente capi chini sui quaderni. Piuttosto una carrellata di reggicalze e pose ammiccanti che davvero poco hanno a che fare con la vita accademica. E se Google immagini è un campione rappresentativo di ciò che le gente pensa e cerca sul web, allora davvero l’immagine della studentessa universitaria sempre di più sta assumendo una chiara connotazione sessuale.

Non lo suggerisce solo Google ma lo dice anche Stefano Blanco, direttore generale della Fondazione collegio università milanesi. Le universitarie fanno sesso a pagamento per pagarsi la retta. O, semplicemente, per comprare un vestito o una borsa. Da fenomeno isolato a tendenza di massa il passo è stato breve. Così almeno leggendo l’allarme di Blanco in un articolo sul Corriere della Sera in cui cita l’esempio di Ilaria, ragazza modello di questa nuova (o antica?) tipologia femminile:

Una studentessa come molte altre: voti discreti, in regola con gli esami, una mamma svedese, voglia di girare il mondo, grande curiosità, molto bella. Aggiungo questa notazione perché Ilaria (solo il nome è di fantasia) un po’ per pagarsi l’università da «fuori sede», un po’ di più per vivere al di sopra delle sue possibilità, più e meno virtualmente si fa pagare (o ricompensare) per le sue prestazioni sessuali, perché, come dice lei, «qualcuno si deve prendere cura del mio tempo».

Ma chi sono “quelle come Ilaria”, quelle insomma che attribuiscono un valore monetario al proprio tempo? Per loro il verbo “pagare” forse è troppo duro. Starebbe a significare che alla loro azione (il sesso) corrisponde una somma in denaro. Conseguenza semplice e diretta. “Ricompensare” forse è più calzante: dà l’idea che il tuo tempo, la tua presenza, il tuo corpo, presuppongono una qualche forma di riconoscenza. Che sia in denaro o “altra utilità”, per dirla con gergo burocratico, non è chiaro. Anche prostituta è un termine forte. Escort nemmeno centra questa specifica categoria antropologica che non vive di solo sesso a pagamento, ma fa altro. Studia, lavora, ha una rete di conoscenze collaudata, magari una famiglia alle spalle. Ma per pagare la retta o per permettersi uno sfizio si fa, appunto, “ricompensare” le proprie prestazioni sessuali. Fenomeno in crescita, tipico di questi anni. Negli Stati Uniti una ragazza su dieci fa sesso per pagarsi la retta. In un sondaggio tedesco è emerso che uno studente su tre lo farebbe. Così come il 29% dei francesi e il 18% dei polacchi. In Italia solo il 67% dice chiaramente “no”. Gli altri si dividono tra un  14% secondo cui “è legittimo perchè lo fanno tutti” e un 20% che dice: “dipende dalle situazioni”.

Altra domanda: perché oggi e non 10 anni fa? Perché negli anni Novanta o anche solo nei primi Duemila non se ne parlava nemmeno? Semplice, ora c’è internet. Ci sono le webcam che obbligano a confrontarsi con la differenza, non proprio sottile, tra sesso vero e sesso virtuale. Una ragazza che si fa guardare nuda, che con il cliente pagante non ha alcun contatto fisico, può definirsi prostituta? E’, l’atto consumato virtualmente, prostituzione? La differenza “etica”, per queste ragazze 2.0, probabilmente è tutta qui. Non si sentono escort né prostitute, solo studentesse.

Virtuale o reale che sia, fareste sesso per pagare la retta o la bolletta? Un campione indicativo di quello che “la gente” pensa lo fornisce sempre il Corriere della Sera che sull’argomento ha lanciato un apposito forum. C’è chi non fa distinzione e definisce questo comportamento come prostituzione pura: Devono solo vergognarsi e basta. Mi dispiace ma non trovo in questi comportamenti nessuna giustificazione plausibile. L’unica che accetterei è la fame. Se una donna per mangiare è costretta a prostituirsi mi dispiace e sarei disposta anche ad aiutarla. Ma queste sono solo donne vuote come la società in cui viviamo.

C’è chi fa il classico confronto, impietoso, tra chi guadagna onestamente ma poco (e con fatica) e chi è disposto a fare tanti soldi passando sopra le rimostranze (eventuali) della propria coscienza: “Lo sai vero che un operaio supera i 17.000 euro all’anno? Sotto ci sono solo i gioiellieri, negozianti vari e qualche agente di commercio. Un ultimo commento, non sono contro le ragazze, ma contro tutto quello che gli stiamo propinando e martellando (con pubblicità ossessive) nella testa, ovvero SE NON HAI UN I-BAFF, O I JEANS DI CICCIO&BAFFELLI SEI UNA SFIGATA PER CUI PER AVERLI MEGLIO CHE COMINCI A FAR MACHETTE….per tutto il resto c’è la carta di credito del pappone di turno !!!”.

Infine c’è chi analizza la situazione con sano pragmatismo riproponendo l’eterna questione: “E se ci pagassero le tasse?” : Per molte/i (anche se non per tutte/i) e’ un mestiere come un altro e quindi non ci trovano niente di male nel farlo. Basta che non lo si voglia far passare come un passo dovuto per pagarsi l’università perché credo che non c’è una sola ragazza che sia in questa situazione. Se lo vogliono fare per avere più soldi, per me sono libere di farlo anche alla luce del sole (in senso metaforico, non fraintendetemi); se poi diventa una fonte di reddito, alle volte più alta di molti altri tipi di lavori, allora che ci pagassero le tasse!”.

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