LONDRA – La chiamano Bregret, ossia il pentimento degli inglesi sulla Brexit. Bregret è la crasi tra Brexit e Regret (che si traduce “ripensamento”). Spuntano infatti i ripensamenti sulla Brexit, fra i britannici. Quanto meno secondo un sondaggio che per la prima volta dopo il referendum favorevole al divorzio da Bruxelles del 23 giugno 2016 accredita un sorpasso, sia pur di misura, dei favorevoli all’Ue sui contrari.
Un dato che potrebbe avere forse un qualche impatto nella campagna elettorale per le politiche anticipate in calendario nel Regno l’8 giugno. Stando all’indagine in questione, realizzata dall’istituto Yougov per il Times, il 45% dei sudditi di Sua Maestà considera oggi un errore la Brexit, contro un 43 che continua a vederla come la scelta giusta. Non solo: se l’89% di chi 10 mesi fa votò Remain conferma adesso di voler restare nell’Unione, fra chi votò Leave la quota dei ‘non pentiti’ scende all’85%. Mentre un 12%, tuttora largamente decisivo a far pendere la bilancia di qua o di là, afferma di non sapere o non volere rispondere.
Certo, una rondine non fa primavera. E il desolante score consolidato dei sondaggi britannici sulla Brexit, quasi tutti smentiti clamorosamente dalle urne l’anno scorso, suggerisce di non prendere quest’ultimo risultato di Yougov per oro colato. Ma il segnale c’è, a quanto pare, e può significare qualcosa a 40 giorni dal voto per il rinnovo della Camera dei Comuni. Il Partito Conservatore di Theresa May, vincitore annunciato, vi si presenta in veste di custode e garante dell’uscita dall’Ue. E tuttavia la sua macchina della propaganda sembra aver abbassato un po’ i toni, negli ultimissimi giorni, sul dossier europeo: con l’apertura di spiragli, o supposti tali, sull’idea d’un accordo di transizione sul mercato unico; sulle tutele ai cittadini Ue residenti nell’isola; sul rispetto di giustizia e leggi europee in tema di diritti umani anche dopo il divorzio.
Ma a sperare d’approfittare degli ipotetici ‘pentimenti’ post referendari sono altri. Come il Labour di Jeremy Corbyn, dato per spacciato dai sondaggisti e finora piuttosto freddo sull’Europa, ma che oggi replica agli attacchi di Boris Johnson puntando proprio sull’immagine da ‘hard brexiter’ del ministro degli Esteri di Theresa May, accusato di voler portare “la Gran Bretagna verso la più grande perdita d’influenza sulla scena mondiale nell’ultima generazione”. E come soprattutto i sostenitori del cosiddetto voto tattico: un gruppo d’influenza, animato dall’attivista Gina Miller, Tony Blair e un pugno di laburisti liberal in rotta con la svolta a sinistra di Corbyn, che teorizza una sorta di guerriglia collegio per collegio, in modo da boicottare dove possibile deputati uscenti euroscettici e promuovere candidati “aperti sulla Brexit” quale che sia il loro partito. Una strategia d’incerta efficacia, con il sistema britannico e le tendenze attuali dei flussi di consenso, ma a cui i blairiani di ritorno mostrano di credere. Anche se alla fine del gioco – a dirlo oggi è lo stesso Blair – “il prossimo premier sarà comunque Theresa May”.