BRUXELLES – Un sì, un solo sì, in coda a un’interminabile teoria di no e di veti incrociati. E’ tutto ciò di cui Theresa May ha bisogno – ma che non è affatto certa di strappare – in quello che potrebbe essere domani, venerdì 29 marzo, il suo canto del cigno alla Camera dei Comuni, dopo l’annuncio delle dimissioni a scoppio ritardato: un voto, l’ennesimo, per provare a portare a casa una Brexit col paraurti dell’accordo di divorzio raggiunto con Bruxelles ormai tre mesi fa, e già bocciato due volte in malo modo dagli ammutinati di Westminster.
L’ultima spiaggia, ma stavolta davvero l’ultima: c’è tempo fino alle 23 ora locale per incassare un via libera, o un altro schiaffo e passare la mano. In palio, la possibilità di mettere fine all’incertezza e fare uscire il Regno dall’Ue entro la proroga limitata al 22 maggio che Bruxelles ha concesso a patto che quell’accordo passi. Salvo al contrario saltare nel buio e far scattare il countdown verso l’altra scadenza fissata dai 27, quella incombente del 12 aprile, prima di decidere se chiedere un rinvio lungo per provare a rovesciare in qualche imprecisato modo il tavolo oppure lasciar andare le cose di default verso il traumatico ‘no deal‘: temuto come la peste dal grosso del mondo del business britannico e non solo, ma a cui l’Europa si prepara come a un sbocco sempre “più verosimile” suonando l’allarme d’un vertice straordinario fra il 10 e l’11.
Il terzo voto sul piano May – che tecnicamente, ma solo tecnicamente terzo voto non è – torna in calendario grazie a un artificio necessario ad aggirare il veto del debordante speaker della Camera, John Bercow. Il quale aveva chiuso la porta a un nuovo giro di giostra se la mozione presentata dal governo fosse stata identica a quelle respinte nelle settimane passate. In sostanza, come ha spiegato all’aula faticando un po’ la ministra dei Rapporti con il Parlamento (Leader of the House), Andrea Leadsom, in questo caso ai voti andrà non l’intesa, ma la sua incorporazione nella Legge sul Recesso dall’Ue. Non solo: il verdetto sarà sul solo accordo di divorzio, con lo scorporo invece della (finora allegata) dichiarazione politica sulle relazione future. Tutto “perfettamente legale”, ha giurato l’attorney general, Geoffrey Cox, e a Bercow è andata bene così.
Cavilli a parte, il messaggio ai deputati è semplice: giriamo pagina uscendo intanto dall’Ue, nel rispetto del risultato del referendum del 2016, e riapriamo nei prossimi mesi (con un altro governo e un altro primo ministro) i conciliaboli sul tipo di rapporti da costruire con l’Ue per il dopo. Rapporti che a quel punto potrebbero essere improntati anche a una Brexit più soft (per esempio con la permanenza dell’intero Regno nell’unione doganale, soluzione in grado di risolvere il problema del confine aperto irlandese senza il freno di emergenza del backstop); o viceversa al modello meno ravvicinato del Canada.
Basterà? I dubbi sono forti. La May spera ancora di riuscire a recuperare in extremis il sostegno di un numero sufficiente di Tory brexiteer ribelli e di alleati unionisti nordirlandesi del Dup, oltre che di potenziali laburisti dissidenti eletti in collegi pro Brexit. Ma i segnali sono al massimo in chiaroscuro. Mentre molti detrattori denunciano l’operazione governativa come “un ricatto disperato”: rivolto da un lato ai falchi euroscettici con la minaccia del rinvio sine die; dall’altro a coloro che paventano il taglio netto del ‘no deal’. Il leader laburista Jeremy Corbyn, e il suo ministro ombra Keir Starmer, parlano da parte loro di scommessa “alla cieca” che non tutela “gli interessi del Paese”, ribadendo il ‘no’ ufficiale del Labour. Ma in realtà anche le opposizioni sono divise e incapaci di ricondurre verso un compromesso le frange più rigide, come hanno certificato clamorosamente le bocciature di tutti e 8 i piani B d’iniziativa parlamentare sottoposti ieri sera a voti indicativi, referendum bis incluso. Piani fra i quali l’unico ad avvicinarsi al traguardo è rimasto quello dell’unione doganale, la più realistica e probabile via di fuga di riserva se May fallisse ancora, secondo l’ex vicepremier conservatore Damian Green. Non senza sottolineare come in fin dei conti si tratterebbe soltanto della chiave per “una Brexit appena più leggera di quella dell’accordo” di Theresa May. (fonte ANSA)