Acqua pubblica, come il Venezuela. M5s fa legge per rubinetto di stato

Acqua pubblica, Italia come il Venezuela. M5s fa legge per rubinetto di stato
Acqua pubblica, come il Venezuela. M5s fa legge per rubinetto di stato (foto d’archivio Ansa)

ROMA – L’intento è nobile, la pulsione che lo anima reale ma il precedente non promette nulla di buono. Stiamo parlando dell’acqua e della voglia dei 5Stelle di renderla pubblica. Un intento figlio dell’inefficienza cronica nella distribuzione e delle infrastrutture a dir poco inadeguate con cui hanno a che fare da sempre o quasi gli italiani e dal voto espresso, in questo senso, nell’ormai lontano 2011.

Eppure, l’acqua italiana è già pubblica per 97 italiani su 100. E l’ultimo ad aver varato un riforma di egual tenore è stato Nicolas Maduro. Senza che l’economia del Paese e la felicità dei cittadini venezuelani sembrino averne giovato. L’Italia non è il Venezuela, e se la situazione politica ed economica del nostro Paese sono decisamente più rosee di quelle di Caracas, la nostra gestione dell’acqua è forse persino peggiore di quella del paese sudamericano. Non è un infatti segreto ma una vergogna che in alcuni casi gli acquedotti che attraversano il nostro Paese perdano anche più del 50% del bene preziosissimo che convogliano, come non è un mistero che ci sarebbe bisogno di grandi investimenti che da tempo latitano.

Eppure, nonostante questo, noi italiani paghiamo poco poco l’acqua che arriva nelle nostre case. A Roma, tanto per fare un’esempio, un metro cubo d’oro blu costa 1.49 euro, a Francoforte 4.23 e a Copenaghen 5.46. E qui sta forse la ragione vera della nostra inefficienza più che nella gestione pubblica o privata. Anche perché, come riporta il Corriere della Sera, il 97% della popolazione italiana è già servita da società idriche che sono pubbliche o a controllo pubblico. Tradotto in soldoni vuol dire che, su circa 60 milioni di italiani, poco più di un milione non ha acqua pubblica ma privata. Nonostante questo gli italiani, con il referendum del 2011, hanno detto chiaramente che vogliono che l’acqua sia pubblica e non privata, cioè gestita da entità pubbliche, e i 5Stelle hanno deciso di dar seguito a questa indicazione.

Un fine appunto nobile diventato proposta di legge a firma della grillina Federica Daga e che arriverà a Montecitorio il prossimo 25 marzo. Ma se nella pratica il rischio massimo è chi si cambi forma senza cambiare sostanza, cioè passando dal pubblico di ora e dalla società miste ad un controllo centralizzato, il problema è che questo rischia di costare non salato ma salatissimo. Ben 15 miliardi di euro stima Ferruccio De Bortoli sul Corriere. Miliardi a cui andrebbe aggiunta la perdita di credibilità e reputazione del nostro Paese sui mercati internazionali. Credibilità e reputazione che già ora non sono in ottima forma, e che verrebbero erose dalla necessità di rompere accordi e contratti in atto per attuare la riforma.

Da pagare ci sarebbero le penali, da scontare il timore che altri investitori avrebbero nel tuffarsi in un Paese dove gli accordi presi valgono solo e soltanto sinché un nuovo governo non cambia le carte in tavola. Con l’approvazione della proposta di legge Daga, finirebbero sotto il controllo ministeriale 7 autorità di distretto e 400 tra consigli di bacino e sub bacino; le tariffe verrebbero decise ancora dall’Autorità di regolazione (Arera) che però non sarebbe più indipendente e le nuove aziende pubbliche, senza finalità di lucro, sarebbero limitate all’ambito provinciale con manutenzione e investimenti coperti con anticipazioni da parte dello Stato. Le tariffe, infatti, coprirebbero solo i costi operativi mentre tutto il resto peserebbe sulla fiscalità generale, cioè sulle tasse pagate da tutti (o quasi) i cittadini.

Fonte Corriere della Sera.

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