ROMA – Beppe Grillo e la sua marcia-retromarcia su Roma stimolano le analisi sui giornali del giorno dopo la rielezione del presidente della Repubblica. Può una minoranza – come è risultato dalle elezioni politiche e anche dalle votazioni per il capo dello Stato, affermare di essere maggioranza? Può un Movimento guidato da due persone (Grillo e Casaleggio) riscrivere la democrazia urlando “noi siamo il popolo, voi siete la casta”?
Negli anni 80 andavano di moda i ghostbuster, gli “acchiappa-fantasmi”. Grillo invece i fantasmi li evoca e li agita: il “popolo”, la “Rete”, la “marcia su Roma” (che poi diventa una retromarcia). Michele Brambilla su La Stampa invita a non confondere la piazza con il popolo:
«Le piazze – fisiche o su Facebook – scatenate ieri da Beppe Grillo sono espressione di un legittimo dissenso, ma non possono essere spacciate per «il popolo italiano». Rappresentano una minoranza. Rispettabile e non priva di ragioni. Ma una minoranza, che non ha diritto di gridare al golpe.
Questo imbroglio che confonde la maggioranza vera con quella virtuale, Grillo l’ha portato avanti fin dall’inizio della candidatura di Stefano Rodotà. Candidatura autorevole di una persona degnissima; ma gabellata in modo subdolo come espressione di una volontà popolare contrapposta ai giochi di palazzo. Lui, Rodotà, unico anti-casta acclamato dalla gente comune; gli altri tutti servi del Palazzo e pronti all’inciucio».
Quelli del Movimento 5 Stelle si sono “auto-eletti custodi della volontà popolare”, come scrive Pierluigi Battista sul Corriere:
«Sarà malconcia, e in questi giorni ha pure raggiunto vette di desolante inettitudine, ma la democrazia rappresentativa che ieri in piazza i grillini hanno voluto mettere sotto assedio è l’unica democrazia che possiamo apprezzare. Non è stata ancora trovata un’altra formula, per esprimere la sovranità democratica: una testa, un voto. In nessuna parte del mondo libero e democratico la sovranità popolare viene esercitata in modo diverso. E neanche la fertile fantasia di Casaleggio ha trovato sinora una formula alternativa convincente. Ululare contro il Parlamento in quanto tale, gridare al golpe se la maggioranza del Parlamento esprime un parere contrario, minacciare una grottesca marcia su Roma, intestandosi arbitrariamente la volontà di un Popolo «offeso», non è solo un’esasperazione smodata nei toni. È invece il segnale di un’estraneità ai metodi e ai princìpi della democrazia rappresentativa molto più profonda di un semplice dissenso su un atto specifico delle istituzioni che a quei princìpi si ispirano.
Grillo, in serata, ha dovuto frenare, annacquare i proclami bellicosi, ammansire una piazza carica di disprezzo e che vedeva nel Parlamento un covo di malfattori. Lo stesso Stefano Rodotà, giurista e costituzionalista di indubbio valore, si è sottratto all’abbraccio del movimento grillino che ne aveva fatto un simbolo in questa tornata presidenziale, ripudiando ogni forma di «marcia su Roma» e distinguendo l’intoccabile diritto di critica e di manifestazione con il violento attacco alle istituzioni della nostra democrazia regolata dalla Costituzione.»
Serena Danna, sempre sul Corriere della Sera, vede lo spirito-fantasma-spettro della “Rete” sempre più evocato e rafforzato dalle vicende che hanno portato all’elezione del presidente della Repubblica. Ma la Rete non vota, la Rete non esiste e in Italia ci sono ancora 20 milioni di persone che non sono connesse ad Internet:
«C’è uno spirito che circola nel Palazzo e che possiede, a turno, i politici italiani: la Rete. Articolo determinativo ed Erre maiuscola, come un’entità trascendente, capace di decidere le sorti dell’Italia. Chi pensava che la retorica digitale fosse esclusiva del M5S — specializzato nel vedere nel web la soluzione di tutti i mali — è stato costretto a ricredersi: la Rete è diventata per tutti gli schieramenti la ragion politica di azioni e rinunce. L’elezione del presidente della Repubblica è stato il trionfo della sua transustanziazione. Insospettabili compresi: da Stefano Rodotà («La mia candidatura girava in Rete da mesi» ha dichiarato) a Mario Monti, secondo cui il nome di Anna Maria Cancellieri era «emerso con forza dalla Rete».
Nei talk show televisivi, quando la discussione si fa difficile, ecco comparire la Rete a smuovere le acque, nemica o amica dello schieramento a seconda di chi parla. Tanto nessuno può smentirla, la Rete. Chissà cosa pensano i 20 milioni di italiani non connessi a Internet quando — mentre guardano i tg, ascoltano la radio, leggono i giornali per trovare risposte — spunta la Rete sulla bocca dei loro rappresentanti. E anche se restiamo tra i 29 milioni che si connettono al pc una volta al mese, c’è da scommettere su quanti sarebbero in grado di darne una definizione. Viene il dubbio che la maggior parte dei politici italiani identifichi la Rete con gli influencer di Twitter, le poche centinaia di utenti — giornalisti, opinionisti — animatori del dibattito sul social network che conta meno di 4 milioni di iscritti. Un bacino decisivo per il consenso mediatico e no, ma che rischia di allontanare i rappresentanti dei cittadini dalla maggioranza dei cittadini stessi. E di fornire un’ interpretazione della realtà pericolosa per le urne e per il Parlamento dove, nel bene o nel male, la Rete non vota. Perché la Rete non esiste».
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