Berlusconi: “Sentenza senza ombre”, Esposito “doveva tacere”, legali B sbagliano

Berlusconi: "Sentenza senza ombre", Esposito "doveva tacere", legali B sbagliano
Carlo Federico Grosso: la sentenza non si discute, ma il giudice Esposito non doveva parlare

Carlo Federico Grosso, giurista insigne ed ex vice presidente del Consiglio superiore della Magistratura, non usa mezzi termini:

“Che le dichiarazioni del Presidente della sezione feriale della Cassazione [Antonio Esposito] possano inficiare la sentenza emessa nei confronti di Berlusconi è fuori da ogni prospettiva immaginabile”.

Lo ha scritto sulla Stampa di Torino, in un editoriale che fin dal titolo fa capire la sua posizione:

“Parole improprie, ma niente ombre sul verdetto”.

Più avanti scriverà anche che si tratta di una

“infausta intervista”.

La decisione della Corte di Cassazione scrive ancora Carlo Federico Grosso, è legittima e definitiva:

“Ora si tratta, soltanto, di redigere la motivazione in conformità a quanto deciso collegialmente in maniera irrevocabile”.

Le parole del giudice Antonio Esposito costituiscono

“una sorta di «fotografia grafica» del ragionamento che ha condotto [i giudici della Cassazione] a [decidere in quel modo], dunque: nessuna anticipazione di giudizio, nessuna interferenza indebita sulla decisione, nessun profilo d’illegittimità”.

Di conseguenza, “assolutamente inoppugnabile” appare a Carlo Federico Grossso

“la valutazione fatta da fonti interne alla Cassazione su sollecitazione del ministro Annamaria Cancellieri, secondo cui l’intervista «non inficia né cambia la decisione sul processo Mediaset», in quanto «il verdetto è già stato emesso e sancito con la pubblica lettura del dispositivo in aula al termine dell’udienza»”.

Se non c’è “nessuna ombra” sulla sentenza di condanna di Berlusconi, ombre invece ci sono, secondo Grosso, su Antonio Esposito:

“Vi sarebbe divergenza fra la versione resa dal direttore del giornale che ha pubblicato l’intervista e quella del magistrato. Il punto ha rilevanza agli effetti della posizione personale del magistrato. Sul piano generale è peraltro marginale. Il nodo di fondo è che un magistrato non dovrebbe mai fare dichiarazioni su di un provvedimento emesso, per lui dovrebbero parlare, e soltanto, i provvedimenti stessi. E tanto più sarebbe tenuto al silenzio, quanto più il caso trattato è delicato, costituisce oggetto di polemiche, estende i suoi riflessi al di là del campo strettamente giudiziario. Quand’anche il Presidente del collegio giudicante avesse parlato «in generale», il suo intervento sarebbe in ogni caso stato, nella specie, gravemente inopportuno”.

Chiude una punta di polemica con gli avvocati di Berlusconi:

“Il nucleo della dichiarazione che si contesta al magistrato è che egli avrebbe dichiarato che Berlusconi sarebbe stato condannato non perché «non poteva non sapere», ma perché «sapeva» (secondo la ricostruzione dei giudici di merito, ritenuta corretta dalla Cassazione in punto di motivazione, sarebbe stato cioè perfettamente a conoscenza delle frodi fiscali per le quali vi è stata condanna penale definitiva). Secondo taluno dei difensori, in quest’asserzione vi sarebbe stata un’indebita anticipazione di motivazione. Francamente il punto mi sfugge. Se Berlusconi è stato condannato per concorso in frode fiscale sia dai giudici di primo grado che da quelli di secondo grado, è ovviamente perché entrambi hanno ritenuto dimostrato che egli era a conoscenza delle frodi contestate, poiché se non fosse risultata provata tale conoscenza, non avrebbe potuto essere pronunciata sentenza di condanna. La Cassazione, confermando la sentenza impugnata, ha giudicato a sua volta che la motivazione dei giudici di merito è stata corretta.

“Ed allora, di quale anticipazione di motivazione potrebbe mai trattarsi? Se c’è stata condanna per frode fiscale dolosa, e se essa è stata confermata dalla Corte Suprema, era in re ipsa che i giudici, tutti, hanno ritenuto dimostrato (a torto o a ragione, non è qui il caso di discuterne) che Berlusconi era consapevole delle frodi. Probabilmente il Presidente della sezione feriale, nella sua infausta intervista, ha semplicemente cercato di spiegare ciò che, per noi avvocati (ma non sempre per i magistrati), costituisce una ovvietà: che nessuno può essere condannato sulla base di una generica asserzione di «non potere non sapere», ma, soltanto, se esistono prove specifiche che dimostrano che l’imputato effettivamente «sapeva»”.

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