ROMA – “Il decreto dignità sarà al più presto, tra lunedì e martedì, in Consiglio dei ministri per l’approvazione. Stiamo lavorando sulla stesura definitiva dei contenuti, ma non ci saranno stravolgimenti rispetto ai temi preannunciati negli ultimi giorni”. [App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play] Luigi Di Maio, vicepremier e ministro del Lavoro, in una intervista ad Avvenire prova a rassicurare la base e promette di onorare gli impegni elettorali, in testa lotta al precariato e forte limitazione dei contratti a termine, ma è un fatto che le misure spot sono state bloccate dal ministro dell’Economia Tria e dalla Ragioneria dello Stato che, quali custode dei conti pubblici, esigono una copertura finanziaria certa per ogni singolo provvedimento.
A fargli da sponda nel governo è la Lega, con il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti, che specie sull’aumento del costo contributivo dei contratti a tempo determinato è interlocutore attento e disponibile agli interessi di aziende, commercianti e artigiani, contrari alle limitazioni annunciate. Del decreto dignità – via split payment e strumenti di monitoraggio fiscale, delocalizzazioni, lotta al precariato e al gioco d’azzardo – è finito in agenda solo il rinvio dell’obbligo di fattura elettronica dei benzinai e solo per scongiurarne lo sciopero. Anche la norma sui rider è tornata nel cassetto.
Di Maio attribuisce la colpa dello slittamento alla burocrazia (“il decreto sta facendo il giro delle sette chiese, deve essere solo vidimato dai mille e uno organi di questo paese”) ma la questione è politica, riserve e contrarietà riguardano il merito dei provvedimenti. Se Di Maio vuole contratti a termine più cari per le imprese, ripristinare le causali per il ricorso al tempo determinato, ridurre le proroghe, si scontra con il mondo dell’impresa (e con la Lega che ne interpreta i bisogni). Per Confindustria infatti aumentare il costo dei contratti a termine “è un errore perché l’occupazione non si genera irrigidendo le regole. Sono solo elementi formali che non porteranno alcuna positività, compresa anche l’idea sulle causali”.
Non deve aver aiutato la minaccia di Di Maio che pende sulle imprese che delocalizzano (“ogni forma di aiuto statale che finisce, di ogni tipo, nelle casse di un’azienda multinazionale che delocalizza o ce li ridai, con gli interessi anche del 200% o da qui non te ne vai”). E le misure fiscali, cioè via spesometri, redditometri e split payment, semplicemente sono irricevibili per il ministro dell’Economia perché solo lo split payment, anche senza è un po’ fastidioso per le aziende, ha consentito un recupero dell’evasione dell’Iva di 3,5 miliardi di euro.