ROMA – Il Senato della Repubblica italiana ha varato, il 29 ottobre 2014, una legge liberticida. I colpevoli si nascondono dietro delle sigle, Fi e Ncd, ma l’emanazione è quella di Berlusconi perché sono tutti figli suoi.
Quello che non era riuscito a Berlusconi da primo ministro, quando una mezza rivoluzione un po’ folkloristica ma efficace lo bloccò, è riuscito ai suoi alfieri, dentro e fuori del Governo Renzi.
La colpa è anche un po’ della grande stampa, specie quella di sinistra come Repubblica e il Corriere della Sera, capaci di montare il caos ai tempi di Berlusconi, forse più per odio verso di lui che per amore della libertà ma che hanno trattato i nuovi nodi del “bavaglino” con un distacco e una superficialità che hanno permesso a Fi e Ncd di stringere il cappio nel disinteresse generale.
Anche il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo ha giocato, come si dice, da fuori: o perché non capiscono o perché sono proprio in malafede.
I senatori del Pd, in testa il capogruppo Luigi Zanda, e poi la relatrice Rosanna Filippin e Massimo Mucchetti, Rosaria Capacchione e Felice Casson, hanno provato a resistere ma al Senato la maggioranza si regge su pochi voti e sono stati sopraffatti dalla longa manus di Berlusconi.
L’odio verso i giornali e in particolare quelli on line ha trovato la sua cartina di tornasole su un emendamento, proposto dalla relatrice Rosanna Filippin, sulla sede del processo per diffamazione per le testate on line.
Al contrario dei giornali su carta, per quelli on line la sede del processo è quella del tribunale dove risiede il querelante, norma iniqua e probabilmente incostituzionale, che comporterà per le grandi come per le piccole testate un sensibile aumento di costi di difesa e sostenuta dall’ex ministro della Giustizia di Berlusconi, Nitto Palma, con l’argomento piuttosto infondato che trovare la sede di un giornale online è costoso. La cosa non è vera, almeno per i giornali on line iscritti al registro della stampa.
I nomi di quelli che si sono opposti all’emendamento sono da registrare. Oltre a Nitto Palma, ci sono Carlo Giovanardi, Ciro Falanga, Lucio Barani.
Alla fine, da parte
dello schieramento che fa capo a Berlusconi c’è stata una tale resistenza che alla fine, per evitare di vedersi respinto l’emendamento, la povera Filippin ha preferito ritirarlo. La forza del P al Senato è scarsa e su un voto simile a quello che si sarebbe potuto avere sull’emendamento contro i 114 del Pd si erano raccolti 114 senatori, fra voti contrari e astenuti, che al Senato contano come contrari.
Nella lotta per la libertà di informazione ora la Camera, dove la maggioranza della sinistra appare più solida, assume il profilo di Fort Alamo, con l’augurio e la speranza che la fine sia magari meno eroica ma positiva.
I senatori sono
“lesti nel portare al voto una legge sulla diffamazione che metterà il bavaglio alla stampa e alle testate online”
quanto sono
“lenti, anzi lentissimi, nel decidere chi mandare alla Corte costituzionale e al Csm”
scopre Liana Milella su Repubblica.
Al Senato
“sulla diffamazione non si perde tempo. C’è voglia di regolare i conti con i giornalisti, anche con quelli che lavorano nelle testate online. Soprattutto quelli, tant’è che al Senato — dove mercoledì 29 ottobre 2014 alle 11 si vota il testo che per fortuna dovrà tornare alla Camera — viene accolto un emendamento dei pentastellati (Fucksia, Airola, Buccarella, Cappelletti, Giarrusso) per cui «anche le testate giornalistiche online», in caso di diffamazione, dovranno pagare una multa fino a 10mila euro. Se l’offesa «consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso» la multa va da 10mila a 50mila euro”.
Viene un dubbio. Che ci sia un piccolo conflitto di interessi, perché non risulta che il blog di Beppe Grillo, www.beppegrillo,it, sia una testata giornalistica registrata e quindi, come il blog di un blogghista solitario, sfugge a buona parte delle nuove norme.
Certo, non c’è più il carcere, rileva Liana Milella,«e questo è indubbiamente un passo avanti», come dice il Pd Felice Casson.
Ma ha notato Giuseppe Giulietti che togliere il carcere dalla diffamazione è solo l’esecuzione di un obbligo che viene dalla Corte di Giustizia europea, quindi nessun merito per i politici.
La prova dell’amore dei politici per la libertà di stampa è nel fatto, riferito da Liana Milella, che la proposta di Felice Casson
“di depenalizzare tutto, di cancellare proprio la diffamazione come reato e prevedere al suo posto una sanzione civile”
non è stata accolta:
“Non solo il delitto resta, ma si aggrava la sanzione economica e soprattutto si affermano due principi con cui, a questo punto, dovrà rifare i conti Montecitorio: un meccanismo di rettifica estremamente rigido, praticamente capestro per i mezzi di informazione di qualsiasi tipo, carta stampata, tv, testate online, che non potranno esimersi dal pubblicare le smentite «senza commento, senza risposta, senza titolo »”,
cosa demenziale e contro l’interesse stesso della smentita,
“ma solo sotto l’indicazione «Rettifica» a caratteri cubitali. Entra pure il diritto all’oblio che, come dicono gli esperti delle leggi sull’informazione, come l’avvocato Caterina Malavenda, «non c’entra giuridicamente nulla con la diffamazione». Invece eccolo lì, all’articolo 3: «L’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge». In caso di «morte dell’interessato gli eredi possono esercitare lo stesso diritto». Unica nota positiva è che saranno punite le liti e le querele «temerarie », quelle di chi chiede un importo pesante pur sapendo che la richiesta di diffamazione è debole. Casson presenta un emendamento che viene approvato”.
La notizia è incompleta. Dicono le cronache che il testo di Casson, che prevedeva l’obbligo per il giudice di procedere contro chi proponesse “querele temerarie” è stato modificato in una facoltà.
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