ROMA – Giovanni Valentini, che fu vice direttore di Repubblica, contesta a Tommaso Cerno, che si è appena messo in aspettativa da condirettore di Repubblica, le parole con cui Cerno ha annunciato il “gran rifiuto” (Dante, Inferno, canto III, verso 60).
Intervistato da Antonello Piroso per la Verità, Valentini, che è stato anche direttore dell’Espresso e di due quotidiani locali e capo di Repubblica a Milano, ha confermato di avere giudicato il passaggio di Cerno da Repubblica al Pd né “una gran perdita per il giornalismo”, né “un grande guadagno per la politica”.
In realtà, come lo stesso quotidiano di Belpietro ha pubblicato, Cerno non ha lasciato proprio nulla. Si è soltanto messo in aspettativa, come legge e contratto gli consentono e probabilmente in aspettativa resterà se sarà eletto. Durante l’aspettativa da deputato, oltre a maturare una ormai modesta (un po’ meno di mille euro mese lordi) godrà anche di un più sostanziale beneficio, i contributi figurativi sulla sua futura pensione da giornalista, a spese dei colleghi. Non è colpa di Cerno né dell’Istituto di previdenza bensì di chi fece quella infame legge del 1974, nota come Legge Mosca)e nessun grillino peraltro si è sognato di denunciare. Tutto questo per dire che non c’è stata una scelta da eroe omerico da parte di Cerno. Solo un percorso abbastanza garantito da norme molto da stato corporativo all’italiana, la cui abolizione forse uno spirito un po’ riformista, neppur troppo titanico, dovrebbe mettere in testa alla sua agenda di azione politica.
Parlando con Piroso, Valentini ha commentato così: “Niente di personale nei confronti di Cerno, che non conosco personalmente e ho visto talvolta in tv. E’ giovane e brillante, ma anche parecchio volubile e instabile. Che vuol dire “lascio Repubblica per una scelta di vita, battermi per i diritti civili”?
La scelta di vita la facemmo noi nel 1975, lasciando il certo per l’incerto come nel mio caso, visto che mi dimisi da Il Giorno (fu proprio Pansa a consigliarmi di accettare la proposta di Eugenio Scalfari), per partecipare a una avventura in un giornale che aveva un editore “puro” – Scalfari, Carlo Caracciolo e la Mondadori di Mario Formenton- il cui business esclusivo era cioè realizzare un prodotto autorevole, capace di stare sul mercato. Mi chiedo: se Cerno quelle campagne non è riuscito a farle né all’Espresso, che ha diretto peraltro solo per 15 mesi, né a Repubblica, dove è rimasto 90 giorni, come crede di portarle avanti diventando uno schiacciatore di pulsanti, un soldatino renziano a Montecitorio?”
Annunciando che alle prossime elezioni voterà scheda bianca, Valentini ha parlato anche delle recenti polemiche che hanno lacerato i grandi vecchi o vecchietti dell’ex Gruppo Espresso-Repubblica. “Ho visto De Benedetti in tv fare un monologo senza contraddittorio (ospite di Lilli Gruber a Ottoemezzo su La7, nda) sui suoi rapporti con Matteo Renzi e le informazioni che lui stesso incautamente gli fornì.
Un presidente del Consiglio non deve anticipare a nessuno le decisioni che il governo sta per prendere. Ma forse Renzi non immaginava neppure che l’Ingegnere, appena uscito, si sarebbe precipitato a dare disposizioni al suo broker, paradossalmente l’unico penalmente coinvolto. Ma l’Ingegnere è abile nel dissimulare le sue vere intenzioni, raccontando la propria versione di comodo e dimenticandosi della realtà dei fatti. La memoria però ce l’ha lunga se deve saldare qualche conto. A me non perdonò il titolo e la foto di copertina con cui commentai il fallimento della sua scalata alla Sgb, la Societe generale de Belgique: “Lo smacco”.
Antonello Piroso incalza. Capitolo licenza Omnitel: che successe?
La sera delle elezioni del 1994, vinte dal centrodestra, il governo di Carlo Azeglio Ciampi -a urne chiuse- l’assegnò all’Ingegnere, una ciambella di salvataggio senza cui l’Olivetti avrebbe rischiato il fallimento e il gruppo editoriale avrebbe potuto risentirne. Quando De Benedetti, che nel frattempo mi aveva licenziato dall’Espresso, scoprì che avevo – pur su posizioni politiche opposte – ottimi rapporti personali con Pinuccio Tatarella, ministro delle Poste e Telecomunicazioni e barese come me, da cui dipendeva il rilascio definitivo della concessione, cominciò a martellarmi di telefonate. Alla fine organizzai una colazione a casa mia in cui lui e Tatarella si parlarono a quattr’occhi, e Pinuccio, che era un galantuomo, riconobbe che l’assegnazione era regolare.
Rivendendola poi al gruppo Mannesmann, l’Ingegnere ha incassato l’astronomica cifra di 14.500 miliardi di lire. Come si è sdebitato con lei?
Dopo il pranzo mandò un mazzo di fiori a mia moglie con un biglietto in cui era scritto “Grazie”: lo conserviamo come una reliquia di San Nicola. Quando al Corriere dichiarò per la prima volta quella somma, gli scrissi un’email per congratularmi retrospettivamente con lui. Ma siccome è un uomo ricco di mezzi ma povero di spirito, non colse l’ironia e mi scrisse una risposta di circostanza.
Nell’intervista si fa cenno anche ai rapporti fra giornali e potere economico.Non tutti condividono il giudizio un po’ romantico di Valentini sulla direzione del Corriere della Sera da parte di Piero Ottone ai tempi della proprietà di Giulia Maria Crespi. Sono passati più di 40 anni da quando la allora zarina Crespi cedette due terzi del Corriere, in parti uguali, a Giovanni Agnelli e Angelo Moratti per poi cedere il tutto ai Rizzoli della P2. Pochi ricordano questo dettaglio non insignificante né le cause che portarono all’ingresso di Agnelli e Moratti nella accomandita che allora deteneva la proprietà. Sono pagine ancora da scrivere e da leggere.
Se qualcuno mai lo farà, più di un mito andrebbe distrutto. Dei partiti che pasticciarono dietro le quinte di via Solferino (era lottizzato persino il Comitato di Redazione, il sindacato interno dei giornalisti: un democristiano, un socialista, un comunista), due, Dc e Psi, non ci sono più. Ma il Pci proietta ancora idoli e ombre e questo rende sconveniente la ricerca della verità.
In quegli anni di rivoluzione permanente, si accettavano, da parte di Ottone e Crespi principi che hanno posto le basi del declino della professione giornalistica in finale di secolo. Servi e ruffiani abbondavano anche prima, ma almeno sapevano scrivere o qualcuno gli articoli male scritti glieli cassava o riscriveva.
Valentini evoca anche il terror Fiat, che andrà analizzato in maggiore spazio. Di quel fantasma lo stesso Valentini fu vittima indiretta quando venne, nel 1984, nominato direttore dell’Espresso. La rivolta guidata dal futuro direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli e da Giancesare Flesca tenne Valentini fuori della porta per una settimana e trovò sostegno e alimento nelle parole dei Garanti, poi provvidenzialmente aboliti, che erano stati inventati e istituiti per placare la fobia Fiat dei redattori dell’Espresso. Costoro erano convinti che Caracciolo e Scalfari avrebbero ceduto alla Fiat l’Espresso per finanziare Repubblica. Non sapevano o fingevano di non sapere ma forse non leggevano i giornali, che la sola parentela di Giovanni Agnelli con Carlo Caracciolo era costata alla Fiat un anno e mezzo di blocco dei prezzi delle auto, in tempi di inflazione a 2 cifre. Grazie al fantasma della Fiat i giornalisti dell’Espresso ottennero anche una tutela assai poco progressista, il parere vincolante su assunzioni e nomine, usato per impallinare nomi non di secondo piano come Giuseppe Turani e Lietta Tornabuoni. Valentini impiegò anni a smantellare quella medievale garanzia.
Conclude Piroso chiedendo: Romanziere con Ultima notte a Lisbona, saggista, appassionato di golf cui ha dedicato il libello La magia del golf. Sa che aforisma ispirò a George Bernard Shaw?
“Essere stupidi per giocare a golf non è necessario. Però aiuta”. Battuta vecchia e falsa. Giocare a golf mi ha cambiato la vita, aiutandomi a rilassarmi anche per scrivere il mio secondo romanzo, che uscirà a maggio. Ma non è una presa di distanza dal mondo dell’informazione: il protagonista è comunque un giornalista. Perchè il vero giornalismo è un virus da cui non si guarisce mai.