Se nelle elezioni amministrative di giugno gli elettori si comportassero come alle politiche, le province governate dal Pd scenderebbero da 50 a 15, quasi tutte concentrate in quelle che una volta si chiamavano Regioni rosse, a quanto scrive Repubblica.
Il 6 e il 7 di giugno non si vota solo per l’Europa. Di mezzo ci sono 4200 comuni, 219 con più di 15.000 abitanti e 30 capoluogo, alcuni dei quali per un motivo o per l’altro importantissimi, e 64 province.
Perderne 35 o giù di lì in una botta sola per il Pd sarebbe un bel guaio. Sull’Unità si legge che nel Pd cominciano a preoccuparsi per le elezioni provinciali persino di più che per le elezioni europee.
Potranno anche essere inutili, o peggio, le province. Ma in termini di consenso e di potere, finché ci sono, sono importanti. E perderne una trentina, specie per un partito che voglia essere radicato nel territorio, e che si affidi in larga misura a dei professionisti della politica (tradizionali o di tipo nuovo in questo caso non conta), vuol dire lasciare senz’arte né parte un esercito di assessori, di eletti, di presidenti e di consiglieri di enti pubblici e semipubblici, di consulenti e via di questo passo, con tutte le conseguenze del caso.
I dirigenti del Pd interpellati dall’Unità dichiarano di fare comunque affidamento, oltre che sulle nuove candidature, sulla buona qualità degli amministratori uscenti.
Stavolta, però, il vento contrario non è forte: è fortissimo. E difficilmente il Pd può pensare di potergli resistere da solo, o quasi, in nome di una vocazione maggioritaria che, se non è più conclamata come nel recente passato, non è stata neanche realisticamente archiviata.
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