ROMA – Il day after è quello dei silenzi di chi davanti alla sconfitta chiede ai suoi di non commentare (M5s) e delle dichiarazioni trionfanti dei vincitori veri e presunti. Si prende la vittoria il Pd che, effettivamente, dato in calo da tutti i sondaggi è quello che ha tenuto meglio, ha portato a casa qualche sindaco al primo turno e si presenta ai ballottaggi con centrodestra avanti in tutte le grandi città. Tutti o quasi, però, cercano di ignorare il dato più evidente, quello di quel 40% di italiani che non ha votato. Gli astenuti, il vero primo partito delle amministrative.
Gongola anche Enrico Letta che, in effetti, aveva tutto da temere dal voto amministrativo. Quel governo in asse con Berlusconi non scalda i cuori degli elettori e c’era da temere il rovescio. E invece, fermandosi ad una prima analisi, il governo di larghe intese esce in qualche modo rafforzato, o almeno in piedi, dalla contesa elettorale. Non a caso, come scrive l’Ansa, “Letta tira un sospiro di sollievo” perché “il governo è stato capito dalla gente”.
Opinione condivisa, sul Sole 24 Ore, anche da Stefano Folli nel suo commento dal titolo eloquente: “Larghe intese più solide”. Scrive Folli:
Era previsto che il voto amministrativo non avrebbe destabilizzato il governo delle larghe intese. Troppo vicino alle politiche di tre mesi fa, troppo eterogeneo. Quello che non era prevedibile, invece, è che avrebbe addirittura rafforzato l’esecutivo Letta.
È proprio quello che è accaduto, almeno stando ai dati del primo turno. Basta vedere chi ha vinto e chi ha perso. Ad esempio, il crollo bruciante dei Cinque Stelle ha molte spiegazioni, ma una sola conseguenza: la minaccia anti-sistema perde vigore, almeno nel medio periodo. Certo, le elezioni amministrative sono il terreno di confronto più scomodo per Beppe Grillo: la sua strategia a percussione ha bisogno della grande cassa di risonanza del voto politico per essere efficace. È stato sempre così per tutti i movimenti populisti, da Giannini a Poujade. Peraltro Roma (è di questa città che soprattutto si parla e si parlerà nei prossimi giorni) ha tutte le caratteristiche per essere sorda e ostile al messaggio “grillino”. I romani non amano le varie “caste”, ma sono abituati a conviverci da tempo infinito e semmai diffidano dei “tribuni del popolo”. Messi alle strette si rifugiano nell’indifferenza e nel non-voto, evitano di correre sulle barricate”.
Ragionamento corretto che, però, non tiene conto fino in fondo di un altro dato chiave delle elezioni amministrative, quello degli astenuti. “Mai così pochi alle urne” scrive Ugo Magri sulla Stampa. E i numeri lo confortano. Ha votato il 62% degli aventi diritto, 15% in meno delle comunali precedenti. Soprattutto a Roma il calo è verticale: è rimasto a casa un cittadino della capitale su due. Affluenza del 52% contro il 73% della volta precedente. E torna subito in mente quanto scritto da Folli: i romani non salgono sulle barricate, si rifugiano nell’indifferenza del non voto.
E’ su questi due fattori che va fatta l’analisi complessiva. Perché se è vero che gli italiani che hanno votato hanno in qualche modo premiato la stabilità di un governo, c’è un 40% che a votare non c’è proprio andato. Quella del Pd, quindi, è ancora una volta una mezza vittoria. Certamente meglio della sconfitta intera di Grillo e della mezza sconfitta del Pdl.
L’analisi più lucida è quella di Francesco Verderami sul Corriere della Sera:
Le previsioni della vigilia erano molto, ma molto diverse. Incoraggiati da sondaggi che continuavano a raccontare di una ripresa che sembrava una cavalcata, con passo di un punto guadagnato a settimana, nel Pdl si attendevano un buon successo in questa tornata amministrativa. Triste è stata dunque la scoperta, nel pomeriggio di ieri, che il voto non ha rispettato le previsioni: arretramento ovunque, anche in roccaforti tradizionali come Imperia, in città governate come Brescia e Viterbo e Treviso, sconfitte pesanti a Vicenza, Sondrio, Siena, Ancona.
Per non parlare di Roma. L’attesa non era quella di una vittoria al primo turno, e forse neanche di un sostanziale pareggio. Ma un divario tanto netto tra Alemanno e Marino e un voto sulle liste deludente è stato un segnale negativo che il drammatico calo dell’affluenza non faceva presagire.
Quindi l’analisi e i dubbi di Berlusconi su Alemanno:
Raccontano che Berlusconi, dalla Sardegna dove si è rifugiato per riposarsi e dove dovrebbe restare per tutta la settimana, abbia accolto «senza drammi» il risultato del voto. Certo, come la pensasse lui lo sapevano tutti da tempo: quando, due mesi e mezzo fa, lesse a pochi giorni dal voto i risultati di sondaggi che davano Alemanno attorno al 20% provò sul serio a sostituirlo, puntando su Marchini. Missione fallita, per il no del candidato centrista e l’opposizione di un Pdl che, dopo che il Cavaliere aveva imposto Storace con risultati deludenti, non voleva cedere un altro uomo di partito. Ora, non è il solo a ripetere che «non era l’uomo adatto, non poteva vincere», anche se nel partito ad alta voce nessuno se la prende con lui.
Resta il fatto che il Pdl incassa una mezza sconfitta. Berlusconi registra l’allontanamento dalla politica delle persone. Perché, governo o meno, quello che interessa agli elettori non sono né le proteste grilline né le vicende giudiziarie di Berlusconi. Agli italiani interessano la crisi e il lavoro. In attesa di risultati dal Governo Letta gli italiani hanno reagito con sostanziale indifferenza. E Berlusconi, che pure i sondaggi davano in forte ripresa, in qualche modo ha sbagliato, penalizzato anche dall’essere al governo. Perché a parte la battaglia sull’Imu, governando col Pd il Cavaliere non può mettersi fino in fondo l’elemetto anti tasse. Sa che se non sarà l’imu sarà l’Iva e che il governo, di certo, la pressione fiscale non potrà ridurla. Forse dovrà trovare il modo di aumentarla senza farlo notare. E questo, per Berlusconi, è un punto debole.
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