Con Monti, Italia in recessione, lo spread sale. Ricolfi: non si fidano

Mario Monti (Foto Lapresse)

ROMA – Sono sempre più numerosi gli italiani, tra quelli che provano a ragionare con la loro testa, che si chiedono se davvero questo Governo Monti sia il meglio che ci potesse capitare e se non si tratti invece di una band cui la scomparsa di Corrado Mantoni ha fatto venire meno il luogo di naturale esibizione, la corrida. Sembra confermato il principio che un buon professore non fa un buon preside e in questo governo imbottito di professori e consiglieri di Stato, non sembrano tanti quelli che, oltre a Corrado Passera, abbiano un minimo di esperienza di gestione di realtà complesse quali sono i ministeri e pezzi dello Stato italiano.

Partito con l’aria di quelli che sono nati con la verità, Mario Monti ha massacrato l’Italia con una insensata manovra fiscale che sempre meno appare motivata da ragioni di opportunità internazionale  e ancor meno di gestione bilancistica e sempre più invece appare come un trappolone teso dall’apparato repressivo fiscale. Ovviamente questi fanno il loro dovere e spingono al massimo, non è il loro mestiere moderarsi cosa che invece è compito del braccio politico, ministro competente e primo ministro. Nel nostro caso, per nostra sfortuna, non c’è dialettica, perché Monti è allo stesso tempo ministro competente e primo ministro e il risultato che rimpiangiamo persino Vincenzo Dracula Visco e la contiguità territoriale di Monti fa invece balzare alla memoria l’infausto ricordo di Giuseppe Prina, che ebbe dai milanesi, nel 1814, una amara retribuzione dopo averli tosati per anni sempre più intensamente su mandato di Napoleone.

I più disponibili a soffrire in nome del superiore interesse della Patria, come fecero tante coppie di poveri italiani consegnando, nel 1935, le fedi nuziali d’oro al Duce, se ne sono fatti una ragione sperando che si trattasse di una manovra di copertura anticipata rispetto all’obiettivo principale, colpire una serie di diritti consolidati, anzi incrostati, per rimettere in circolo il sangue, fare ripartire l’occupazione, dare una prospettiva di lavoro ai giovani e una prospettiva di decente vecchiaia ai più grandi.

Invece, proprio in questo settore, che rappresenta uno dei capitoli chiave di quelle riforme di cui l’Italia ha bisogno, che il mondo si aspetta e che tutti hanno sulla bocca basta che riguardino gli altri, abbiamo registrato una delle prove più modeste, data dal ministro Elsa Fornero, che si è intrappolata con le sue stesse parole, buttando là dichiarazioni affrettate e improvvide sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori (e anche sull’Inpgi, la previdenza dei giornalisti, beccandosi meritati rimbrotti).

Tutti sanno che, per una serie di mosse sbagliate del passato da parte di governi guidati da Silvio Berlusconi, l’art.18 è diventato una specie di totem per i sindacati, i quali probabilmente accetterebbero l’azzeramento dell’intero Statuto ma una riforma dell’art. 18 mai.

La Fornero ha ottenuto l’impossibile, ha fatto apparire un genio il segretario del Pd Pierluigi Bersani, che in questo primo scorcio di secolo ha legato il proprio nome a due fallimenti di tentativi di liberalizzazioni ma che questa volta ha più che ragione: il tema non è l’art. 18 è ben altro, è l’intero sistema del mercato del lavoro in Italia.

Pensando di trovarsi negli ambienti ovattati e rarefatti che probabilmente  abituata a frequentare, la Fornero ha barcollato di fronte alla violenta reazione dei sindacati e ha fatto una marcia indietro precipitosa che l’ha portata dritta nelle braccia della Cgil, inventando, o meglio facendo propria la proposta di qualcuno dei tanti, competenti da faziosi funzionari e consulenti del ministero del Lavoro, per un contratto standard che sarebbe esattamente l’esatto contrario di quel che ci vuole.

Tanto ha fatto la Fornero , che, oltre a provocare lo scontento della maggioranza delle imprese, ja spinto il capo della Cisl,  Raffaele Bonanni, in una intervista al Corriere della Sera, a proposito “dell’ipotsi di contratto unico” ha sparato a palle incatenate: ‘Al ministro Fornero  dico da subito che non discutiamo di modelli preconfezionati in vitro che possono servire al massimo per sperimentazioni locali”.

E ancora: ”Se arriva al tavolo con un atteggiamento aperto al confronto trovera’ la massima disponibilita’ al dialogo, altrimenti non faremo sconti a nessuno”. La revisione dell’articolo 18 in ”una fase come l’attuale, caratterizzata da licenziamenti”, non serve.

E poi Monti si stupisce che lo spread sta tornando ai livelli di Berlusconi.

Forse la scarsa esperienza operativa non consente a Monti e alla Fornero (ma Passera dovrebbe invece averlo imparato, con categorie come i postelegrafonici e i bancari) di capire che i sindacati sono sì fondamentali e averceli contro può costare caro, ma sono anche i più feroci avversari di qualsiasi cambiamento. Sono una burocrazia formidabile ma sono anche i più precari di tutti, che vivono grazie alle tessere che i lavoratori sottoscrivono, in perenne concorrenza tra loro per conquistare l’adesione a uno dei tre sindacati non di categoria ma di ideologia, peculiare fenomeno italiano.

Le tessere non le pagano i disccupati, le pagano gli occupati. La memoria dei sindacalisti freme al ricordo non tanto delle ristrutturazioni aziendali, ma delle grandi purghe con ristrutturazione che hanno prepensionato migliaia di funzionari del sindacato lo scorso decennio quando la fine della guerra fredda e anche una diminuita efficacia dell’azione sindacale ha ridotto in modo significativo il numero di tessere sottoscritte dai lavoratori.

Eppure al secondo punto delle richieste europee c’è proprio l’apertura del mercato del lavoro, che vuol dire, nelle condizioni economiche attuali, solo una cosa: mandare a casa gli anziani e assumere i giovani.

Rivediamo, punto per punto, cosa scrivevano Trichet e Draghi, l’agosto del 2011, a Silvio Berlusconi, nella lettera svelata un mese dopo dal Corriere della Sera ad opera di Mario Sensini:

“1 – Privatizzazione dei servizi pubblici. È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.

“2 – Modificare le norme sulla contrattazione, sulle assunzioni e sui licenziamenti. C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. Inoltre dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

“3 – Raggiungere un deficit pubblico pari all’1% del Pil già nel 2012. Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa.

“4 – Ritoccare le pensioni e allungare l’età pensionabile delle donne. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Trichet e Draghi dicono anche che andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.

“5 – Ridurre i costi dell’impiego pubblico tagliando, se necessario, gli stipendi. Il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.

“6 – Revisione dell’amministrazione pubblica e abolizione delle Province. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali”.

Un settimo punto manca, dalla lista, quello che invece appare uno dei principali obiettivi di Monti, cioè privatizzare, magari ai valori di borsa da crisi, Eni, Enel e pezzi pregiati di Finmeccanica, puliti dei fondi neri.

Per non avere voluto (né potuto per l’impasse politica) attuare se non marginalmente i punti di cui sopra Berlusconi è stato fatto saltare a colpi di spread, non perché era diventato nel mondo una “figure of fun”, un personaggio ridicolo, e raccontava barzellette sconce.

Ecco perché lo spread con Monti è tornato a crescere: perché i mercati finanziari non credono che Monti sia molto diverso da Berlusconi, grisaglia e Messa domenicale contro doppiopetto blu e bunga bunga a parte. Una con la storia personale e politica di Angela Merkel, figlia di un pastore protestante nella Germania comunista, non si degrada certo in piccole vendette personali. Se ha chiesto la testa di Berlusconi, lo ha fatto perché consapevole che con Berlusconi non si cavava un ragno dal buco in termini di azione politica non di battute oscene.

Lo spread non è deciso dalla Merkel, anche lei subisce gli effetti di quell’inafferrabike sistema senza faccia che si chiama mercato.

Il mercato, da che mondo è mondo, è l’unica condizione di sviluppo, è spietato quanto invisibile, non conosce solidarietà, conosce solo profitto e inefficienza.

Il comunismo fu ucciso dalla mancanza di mercato, supremo metro dell’efficienza: infatti implose perché al mercato si provoò a sostituire la giustizia.

Che gli effetti feroci del mercato vadano attenuati e corretti è una conquista del novecento e in questo secolo abbiamo assistito a una specie di lotta tra il bene (il bene degli esseri umani) e il male (l’azione spietata del mercato) , ma la conclusione deve essere equilibrata, se uno prevale è il Far West, se prevale l’altro è l’Urss.

In Italia la prevalenza del bene è stata possibile negli anni della lotta al comunismo: il differenziale tra quello che ci saremmo potuti permettere e quello che invece è stato in termini di garanzie sul lavoro e più in generale di benessere diffuso era consentito dal crescente disavanzo pubblico quello di cui oggi, a unione sovietica finita, ci chiedono di rientrare perché ormai la linea dello scontro si è spostata più a oriente, l’avversario è un altro tipo di comunismo, meno ottuso di quello russo, così come meno ottusi e assai più flessibili sono i cinesi.

Da un tentativo di ricostruzione dei meccanismo mentali dei mercati fatto per la Stampa da Luca Ricolfi emerge non solo un aiuto a capirne meglio i funzionamenti, ma anche una conferma delle critiche a Monti e delle perplessità che la sua azione suscita.

L’articolo si intitola “Come ragiona la mente dei mercati” e prende lo spunto da quanto è accaduto venerdì 30 dicembre, quando “come ormai succede da diverse settimane, i mercati hanno mostrato di non aver fiducia nell’Italia”.

Quel che è peggio è che “dopo l’insediamento di Monti e la nuova manovra le cose non sono migliorate (anzi sono peggiorate)”.

Ricolfi va al punto dolente: nel sistema finanziario internazionale, per prestare denaro a lungo termine allo Stato italiano, si “pretendono 5 punti percentuali di interesse in più (il famigerato spread) che per prestarlo alla Germania, e quasi 2 punti in più che per prestarlo alla Spagna”. Al contrario, “aAncora pochi mesi fa il nostro spread con la Germania era inferiore a 2 punti, e i mercati preferivano prestare soldi all’Italia piuttosto che alla Spagna”.

Seguono tre domande, che Ricolfi lascia senza risposta, ma che sono tre fucilate a Monti.

“1. Perché la sostituzione di Berlusconi con Monti, nonostante l’indubbia maggiore credibilità internazionale di quest’ultimo, si è accompagnata ad un aumento dello spread anziché a una sua diminuzione? Perché non si è realizzata la profezia delle opposizioni secondo cui la «discontinuità» politica rappresentata dalla rimozione di Berlusconi avrebbe ristabilito un po’ di fiducia sui mercati? […] Perché le cose vanno peggio ora, visto che Monti è indubbiamente percepito da tutti i soggetti che contano (mercati e autorità europee) come più capace di Berlusconi di mantenere gli impegni presi?”.

“2. Se la ragione per cui il nostro spread non scende è davvero la riluttanza delle autorità europee a irrobustire il fondo salva-Stati, perché lo spread della Spagna oscilla senza una netta tendenza all’aumento o alla diminuzione, mentre il nostro mostra una chiara tendenza all’aumento? Perché fino a pochi mesi fa il nostro spread era migliore di quello spagnolo e ora è peggiore? Basta l’allentamento del sostegno della Bce a spiegare la svolta a nostro sfavore?”.

“3. Perché la situazione relativa di Italia e Spagna si è deteriorata drammaticamente nelle ultime quattro settimane, che hanno visto il nostro spread rispetto alla Spagna passare da 66 punti base a 174? Come mai questo deterioramento si è prodotto nel momento meno logico, ossia proprio quando, finalmente, un governo autorevole e nuovo di zecca varava una manovra di grande portata? “.

Fingendo di non sapere la risposta, Ricolfi in realtà una se la dà:  “Non sarà che, nella seconda metà di novembre, in Spagna e in Italia sono avvenuti due cambiamenti che i mercati giudicano in modo opposto?

“In Spagna c’è stato un cambio di governo, da sinistra a destra, che promette di aggiustare il bilancio prevalentemente dal lato della spesa, alleggerendo vincoli e pressione fiscale sulle imprese.

“In Italia c’è stato un cambio di governo da destra a «non-destra» che, nonostante il contesto in cui operano le nostre imprese sia molto più sfavorevole di quello spagnolo, ha già dimostrato di puntare il grosso delle sue carte sull’aumento delle tasse (come succedeva con il precedente governo). E’ vero che la manovra Monti prevede sgravi fiscali sulle imprese per 2,5 miliardi, ma tali sgravi sono annullati dalle molte misure che aumentano i costi di produzione di lavoratori autonomi e imprese, come la maggiorazione delle aliquote contributive, le nuove imposte sugli immobili, gli aumenti del costo dell’energia.

“Forse, se i mercati hanno punito l’Italia non è nonostante la manovra di Monti, ma – in un certo senso – a causa di essa. La credibilità di Monti, la sua serietà, il suo coraggio, non sono bastati per la semplice ragione che i mercati hanno colto l’impianto recessivo della manovra, nonché il carattere tuttora evanescente della cosiddetta «fase 2», quella che dovrebbe rilanciare la crescita. Spiace doverlo constatare, ma in fatto di crescita i mercati paiono credere poco agli annunci dei governi, e abbastanza alle previsioni dei grandi organismi internazionali, tipo Ocse o Fondo Monetario Internazionale. E tali previsioni parlano chiaro: per la Spagna la crescita attesa del Pil nel 2011 è stabile a +0,8 e quella del 2012 resta positiva (+0,5). Per l’Italia la previsione 2011 è già stata ridotta di mezzo punto (da +1,1 a +0,6), mentre per il 2012 si prevede una contrazione del Pil, pari a -0,5 secondo l’Ocse e addirittura a -1,6 secondo il Centro Studi Confindustria.

“Che sia per questo, perché hanno capito che in Italia – chiunque governi – la crescita è solo uno slogan, che i mercati continuano a non fidarsi di noi?”.


I commenti sono chiusi.

Gestione cookie