“La ronda dei fantasmi di Salò”. Il passato prossimo di Fini & co. in un reportage di Giampaolo Pansa sul congresso Msi del 1970

Un giovane Fini dietro Almirante in una foto del 1978

Oggi il centro sinistra e i maggiori quotidiani italiani accreditano i vari Fini o Bocchino (e via alemannando…) come dei maitre a penser. Ma un bell’articolo di Giampaolo Pansa ci rinfresca la memoria su quello che è stato il loro passato prossimo, non remoto. E’ un reportage pubblicato da La Stampa di allora sul congresso del Movimento Sociale Italiano svoltosi all’Eur il 4-5 aprile del 1970.

Il Msi ha occultato il vecchio rituale e le risse; ma la realtà è più forte dell’ipocrisia. Fra gli ex combattenti e le dame in visone, i più vispi sono gli uomini della repubblica delle teste da morto, i “camerati” giunti dall’estero, meno informati, fanno il saluto romano e scatenano applausi ricordando Perón o le guerre d’Africa. L’istrionico Almirante ha rovesciato sulla platea milioni di parole vuote, atteggiandosi a difensore della libertà.

«La destra nazionale è nata, viva il fascismo di Salò» si dovrebbe gridare; invece nessuno dei mille dell’Eur ha il coraggio d’ammetterlo: sul fondale, il blu sostituisce il nero, e Almirante ripete, giulebboso, che «abbiamo rinunciato saggiamente ad un rituale sorpassato». Ma la storia è più fardi ogni ipocrisia, i fantasmi ritornano, il vecchio tiene a battesimo il falso nuovo. Sul palco della presidenza Lauro sonnecchia annoiato. L’ammiraglio Birindelli è ingnignito perché, dicono, avrebbe voluto presiedere lui il congresso. I più vispi sono gli uomini della « repubblica delle teste da morto». C’è Paglioni, capo dei fasci dell’Emilia. C’è Franz Turchi, prefetto repubblichino della Spezia. C’è Abelli, già «Decima Mas». C’è Tremaglia, sottotenente di Salò.

Al centro sta Pino Romualdi, presidente del congresso. Ha un bel vestito manageriale, l’aria efficiente, e apre i riti congressuali con una lunga omelia. Legge con voce sicura, appena un po’ più spenta di quella di trent’anni fa. A Parma, dov’era federale della R.s.i., ricordano quegli anni. Ricordano il 10 giugno 1944, piazza Garibaldi, la celebrazione dell’entrata in guerra, oratore ufficiale un capitano delle SS italiane. Il pubblico era scarso: appena una trentina d’iscritti al partito, qualche reparto armato, e poi il vuoto attorno agli amici dei nazisti che volevano festeggiare quella data di lutto. Romualdi si arrabbiò e, ricorda un rapporto fascista dell’epoca, prese la parola «stigmatizzando il contegno della popolazione, assente nello spirito e nei sentimenti patriottici, cosa che trovava riscontro anche nel fatto che, nei pressi del luogo dove si svolgeva la cerimonia, sostavano nei caffè varie persone a conversare, mentre altre, di passaggio, affettavano la massima indifferenza. Per tale motivo, alla fine della cerimonia, i fascisti presenti si sono portati nei caffè dove hanno percosso le persone che ivi sostavano. Sono volati tavoli e seggiole e parecchi avventori, tra i quali un prete, una donna e un mutilato, sono stati malmenati».

All’Eur i «gorilla» oggi non servono, le seggiole restano in file ordinate, anche le risse fra camerati dei vecchi congressi missini sembrano un ricordo lontano. La platea, tra ex-combattentistica e mondana, fitta di signori e signore di mezza età, è generosa di applausi con Romualdi che recita rassegnato la sua parte di eterno secondo: vicesegretario di Pavolini durante l’agonia di Salò, vicesegretario di Almirante e ormai pensionato come oppositore interno e come interprete della linea dura. Lui proclama cose scontate sull’Italia di oggi: le «pugnalate alla schiena dello Stato», Valpreda, il paese « sommerso dall’orda dilagante dell’anarchia e della criminalità», gli «utili idioti» che vanno ai convegni di Amendola..

Tira un’aria moscia, non pochi posti sono vuoti, le dame in visone del «fascismo in grigio» che va di moda a Roma verranno in visita soltanto nel pomeriggio per ascoltare Almirante. Nell’atrio Caradonna, invecchiato, smagrito, la cravatta slacciala a sghimbescio, bofonchia con i giovani del servizio d’ordine che scherzano fra loro in modo pesante. «A Marce’, beccate questo!». «Boni, boni…». Sono le truppe interne che « difendono » il congresso e ne fanno un conclave un po’ assediato e fin troppo esclusivo. Qualcuno insinua che i « ragazzi » sono stati tenuti fuori «perché non rompano le scatole durante i lavori ». Ma forse è soltanto una misura di sicurezza: tutti, persino l’uomo del bar, debbono portare bene in vista il cartellino con nome e cognome.

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