Ferrario, Belpietro: giornalismo messo ko da una brutta e sciocca sentenza e da una pessima e incosciente scuola

di Lucio Fero
Pubblicato il 29 Dicembre 2010 - 17:08 OLTRE 6 MESI FA

Una brutta e sciocca sentenza e una pessima e incosciente scuola, entrambe riguardano il giornalismo italiano o quel poco che ne è rimasto. La sentenza brutta e sciocca è quella che “reintegra” Tiziana Ferrario sulla sedia della conduzione del Tg1 delle 20,00, la sedia su cui sedeva prima che il direttore Augusto Minzolini da lì la spostasse. Dice nella sua sentenza il giudice del lavoro di Roma che la Ferrario è stata sollevata dall’incarico per “discriminazione politica” e quindi ordina che torni a condurre il Tg, proprio quel Tg e a quell’ora precisa. Il giudice che questo dice e questo ordina o non sa o fa finta di non sapere. Da molti anni ogni incarico, ogni mansione, ogni “sedia” in Rai vengono assegnati e concessi per indicazione “politica”. Si diventa direttori, conduttori, capi redattori e anche molto meno in gerarchia secondo natura e appartenenza politica. Se quindi il carattere “politico” e non professionale di ogni incarico, mansione e sedia è secondo la giurisprudenza del lavoro “inficiante” delle decisioni aziendali e direttoriali, allora per paradosso ma non tanto non solo ogni sostituzione ma anche ogni nomina dovrebbe essere annullata da relativa sentenza.

Ma non solo in un corto circuito logico incorre la sentenza e il suo estensore. Incorre, sbatte, fragorosamente impatta in un corto circuito pratico ed operativo. Poichè ogni nomina in Rai e ogni rimozione in Rai è, purtroppo non lo si può negare, “politica”, allora un nominato mai potrà essere sostituito perché sempre sarebbe “politica” la sostituzione. Ne discende che chi è stato nominato direttore, conduttore, capo redattore e via a scendere, lo è per la vita, fino a che senescenza o dipartita non lo separi dall’incarico. Ogni nomina diventa, secondo questo sciocco e brutto principio, un matrimonio indissolubile.Responsabile di questa assurdità, di questa ingiustizia vestita da giustizia è la magistratura del lavoro. Ma colpevole è anche la Rai che non regola con contratti a tempo questi incarichi dirigenziali come invece fa ogni azienda editoriale privata. Si è direttori, conduttori e capi per un certo numero di anni. Alla scadenza si rinnova, oppure si cambia: questo si scive nei contratti. E il lavoratore giornalista che firma quei contratti non è un povero precario, il mandato a termine di quella funzione, della funzione e non del posto di lavoro, è causa e motivo giustificato di indennità e di retribuzioni giustamente molto più elevate di chi quella funzione non ricopre. Colpevole è anche la corporazione dei giornalisti che traveste la voglia matta e ingorda di restare sempre in posizioni di comando e prestigio con il diritto al posto di lavoro. Non è la stessa cosa e sostenere sia la stessa cosa è contrabbando ideologico, ingordigia apicale della corporazione travestita da condizione operaia. Con  l’aggravante del chiamare in causa, per questa causa non nobilissima, niente meno che la libertà di informazione.